Questo articolo prende larghi spunti da una rassegna sull'argomento (Strass SE et al. New evidence for stroke prevention. JAMA 2002: 288:1388-1395), integrata con i risultati di alcuni studi importanti pubblicati recentemente.
Nei paesi più sviluppati, l'ictus rappresenta la terza causa di morte e la principale causa di disabilità di lungo termine1. L'ingente mole di evidenze oggi disponibili consente di definire delle linee di indirizzo in grado di orientare le strategie di prevenzione dell'ictus nel modo più rigoroso. Quali fattori aumentano il rischio di ictus?
Gli studi osservazionali hanno individuato numerosi fattori che aumentano il rischio di ictus. Molti di questi fattori, per lo più legati alla malattia aterosclerotica, possono essere modificati con trattamenti farmacologici e non farmacologici (Tabella 1)2. Il loro riconoscimento costituisce la base della prevenzione sia primaria che secondaria dell'ictus.
Altri fattori non possono essere modificati, ma rappresentano importanti indicatori per definire le classi di rischio. Tra questi vi sono soprattutto l'età avanzata (l'incidenza di ictus aumenta con l'età e, a partire dai 55 anni, raddoppia per ogni decade), il sesso maschile, la razza nera, la presenza di una coronaropatia o di insufficienza cardiaca e una storia familiare positiva per ictus o attacchi ischemici transitori (TIA). Se il diabete debba essere considerato o meno un fattore di rischio modificabile rimane tutt'ora argomento di discussione. I pazienti con una storia pregressa di TIA corrono un rischio importante di ictus, soprattutto durante i primi giorni dopo l'evento. Uno studio di coorte condotto su 1.707 pazienti con TIA (il 68% in trattamento con aspirina, il 12% con ticlopidina e il 14% con warfarin) ha documentato una incidenza di ictus dell'11% entro 90 giorni dalla dimissione dall'ospedale (metà degli ictus si sono verificati entro 2 giorni dal TIA)3. Prevenzione primaria
Quali sono le strategie più efficaci?
L'impatto dei vari trattamenti di prevenzione primaria viene riassunto sinteticamente nella Tabella 2. Nella applicazione pratica dei dati contenuti nella tabella, occorre tenere presente che il profilo di rischio complessivo di ictus è variabile e di conseguenza il numero di pazienti da trattare può variare considerevolmente.
Trattamento dell'ipertensione
Gli studi randomizzati, controllati con placebo, hanno dimostrato che abbassando la pressione arteriosa nei soggetti ipertesi si previene efficacemente l'ictus sia ischemico che emorragico (riduzione RR del 35-45%)4-8. Anche se le informazioni provengono per lo più da studi che hanno valutato pazienti con pressione diastolica (e sistolica) elevata, una revisione di 8 studi (per un totale di 15.963 pazienti) ha evidenziato analoghe riduzioni nella incidenza di ictus con la terapia antipertensiva in pazienti anziani con ipertensione sistolica isolata (riduzione dell'odds del 30%; 95% IC 18%-41%)9. I benefici del trattamento antipertensivo si estendono anche ai pazienti ultra80enni (riduzione RR del 34%; 95% IC 8%-52%)10.
Una revisione sistematica dei primi studi condotti sul trattamento antipertensivo ha confermato che la riduzione di ictus prevista (sulla base degli studi epidemiologici) abbassando la pressione sistolica di 5-6 mmHg (la media raggiunta nella maggior parte dei primi studi) si ottiene in breve tempo (riduzione dell'odds del 42%; 95% IC 33-50%) nell'arco di 3 anni dall'inizio della terapia4. Una seconda revisione sistematica ha indicato che tanto maggiore è la riduzione della pressione arteriosa tanto più alto è il numero degli ictus evitati (RR 0,80; 95% IC 0,65-0,98, per una ulteriore riduzione di 3/3 mmHg di pressione arteriosa con un trattamento più intensivo)11.
Gli studi hanno dimostrato che i diuretici tiazidici, i beta-bloccanti, gli ACE-inibitori e i calcio-antagonisti diidropiridinici a lunga durata d'azione sono tutti in grado di ridurre l'incidenza di ictus5,6,11-12. Gli studi di confronto "testa a testa" tra i singoli farmaci presentano spesso limiti metodologici che non consentono di stabilire se un antipertensivo sia superiore ad un altro. Due studi comparativi recenti hanno fornito utili informazioni su questo aspetto. Il primo (LIFE)13ha confrontato il losartan con l'atenololo in 1.195 pazienti diabetici ipertesi con segni ECGrafici di ipertrofia ventricolare sinistra, con età media di 67 anni e pressione arteriosa 177/96mmHg. A parità di effetto ipotensivo, dopo 4,7 anni di trattamento, il losartan è risultato più efficace dell'atenololo nel ridurre gli ictus fatali e non fatali (9% contro 11%), la mortalità cardiovascolare (6% contro 10%) e agli infarti miocardici (7% contro 8%)13. Il secondo, noto con l'acronimo ALLHAT, è lo studio clinico più grande e più importante mai eseguito sul trattamento dell'ipertensione. Lo studio ha valutato l'effetto dell'amlodipina, del lisinopril e del doxazosin nei confronti del clortalidone sull'incidenza di eventi cardiovascolari in pazienti di età uguale o superiore a 55 anni con ipertensione e almeno un altro fattore di rischio cardiovascolare (diabete di tipo 2, fumo, ipertrofia ventricolare sinistra, malattia cardiovascolare su base aterosclerotica, colesterolo HDL<35mg/dl)14. Il braccio della ricerca relativo al gruppo di pazienti trattati con doxazosin era stato interrotto prematuramente, nel gennaio del 2000, per la evidente discrepanza a favore del clortalidone nella incidenza dei casi di scompenso cardiaco congestizio15. Dopo un follow up medio di 5 anni non si è osservata alcuna differenza nell'end-point principale dello studio: l'evenienza di morte per malattia coronarica fatale e la frequenza di infarto miocardico non fatale nei gruppi trattati con amlodipina (11,3%), lisinopril (11,4%) e clortalidone (11,5%)14. Per quanto riguarda invece la riduzione dell'ictus fatale e non fatale che rappresentava uno dei 4 end-point secondari, insieme alla mortalità per ogni causa, alla malattia coronarica combinata e alla malattia cardiovascolare combinata, il clortalidone si è dimostrato più efficace del lisinopril (5,6% contro 6,3%)14.
Sulla base dei dati disponibili non è quindi possibile affermare che una classe di antipertensivi sia chiaramente superiore ad un'altra. Tuttavia, a fronte della necessità di privilegiare sempre l'obiettivo di abbassare la pressione arteriosa sotto i limiti prestabiliti, è innegabile che per la loro efficacia clinica nel ridurre gli eventi clinicamente importanti a prescindere dal sesso e dalla presenza o meno di diabete, per la loro tollerabilità ed economicità, i diuretici tiazidici debbano essere considerati di prima scelta. Trattamento dell'iperlipidemia
Alcuni studi randomizzati di ampie dimensioni hanno dimostrato che nei pazienti affetti da ipercolesterolemia le statine sono in grado di evitare gli eventi cardiovascolari maggiori fatali e non fatali, sia in prevenzione primaria15-16 che secondaria17-20. Questi risultati concordano con i dati di altri studi sperimentali, osservazionali e prospettici che indicano la dislipidemia come un importante fattore di rischio per coronaropatia. Negli studi osservazionali, l'associazione causale tra dislipidemia e rischio di ictus è meno chiara: mentre livelli elevati di colesterolo totale e colesterolo LDL sono associati ad aumentato rischio di ictus ischemico, bassi livelli di colesterolo LDL (es. LDL< 70mg/dl) sono associati ad un maggior rischio di ictus emorragico2.
Nell'aprile di quest'anno è stato pubblicato il primo studio che ha valutato l'efficacia della terapia con una statina nella riduzione del rischio di ictus21. Più di 10.000 pazienti ipertesi, di età compresa tra 40 e 79 anni, con almeno altri 3 fattori di rischio cardiovascolare (es. ipertrofia ventricolare sinistra, diabete, arteriopatia periferica, storia di ictus o TIA) moderatamente dislipidemici (livelli di colesterolo totale uguali o inferiori a 250 mg/dl) sono stati randomizzati ad atorvastatina (10mg/die) o a placebo. Questo gruppo di pazienti rappresentava il braccio ipolipemizzante (Lipid Lowering Arm) di una originaria popolazione di oltre 19.000 ipertesi randomizzati a due diversi trattamenti antipertensivi nell'ambito dello studio ASCOT (Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial). Il trattamento è stato interrotto dopo 3,3 anni di follow up rispetto ai 5 previsti. La principale misura di esito adottata, l'infarto miocardico non fatale e la coronaropatia fatale, è risultata significativamente più bassa (del 36%) nei pazienti trattati con atorvastatina. Nei pazienti che assumevano atorvastatina si sono inoltre registrati 89 ictus fatali e non (uno dei sette end point secondari dello studio) contro i 121 osservati nel gruppo trattato con placebo, pari ad una riduzione del 27%. I benefici sono comparsi già dopo il primo anno di trattamento e hanno interessato in modo omogeneo i vari sottogruppi predefiniti di pazienti.
Oltre all'ASCOT, solo un altro studio (il già citato ALLHAT) è stato condotto in una popolazione di ipertesi. In questo studio, il trattamento con una statina (pravastatina 40mg/die) in un sottogruppo di 10.355 pazienti moderatamente ipercolesterolemici non ha prodotto alcun beneficio in termini di mortalità per tutte le cause, né di eventi coronarici o di ictus22. Va detto, tuttavia, che nel gruppo assegnato all'assistenza usuale che fungeva da controllo, molti pazienti assumevano una statina e questo può aver inficiato i possibili vantaggi della pravastatina.
Prima della pubblicazione dello studio ASCOT, in assenza di studi aventi come principale end point la riduzione dell'ictus, i dati estrapolati dagli studi randomizzati sulla terapia ipolipemizzante in una metanalisi avevano suggerito una analoga riduzione del rischio di ictus, fatale e non fatale (25%; 95% IC, 14%-35%)2.
Allo stato attuale delle conoscenze si può affermare che la terapia con statine è sicura ed è associata con una riduzione significativa del rischio di primo ictus. Il beneficio massimo con l'uso di una statina si ha più in termini di minori eventi coronaropatici che di ictus. Perciò, la decisione se iniziare un trattamento ipolipemizzante va fatta in base alla valutazione del rischio complessivo del singolo paziente. Terapia antitrombotica in caso di fibrillazione atriale
I pazienti con fibrillazione atriale (FA) hanno una mortalità doppia rispetto a quella della popolazione generale comparabile per età e sesso, soprattutto per un aumentato rischio di ictus e di eventi tromboembolici sistemici23. In un paziente di mezza età con fibrillazione atriale non reumatica il rischio di ictus è, infatti, del 5% circa all'anno24 e i pazienti con FA valvolare corrono un rischio ancora più grande (17 volte superiore a quello dei controlli per età e sesso). Nel singolo paziente, tuttavia, il rischio di ictus varia considerevolmente in funzione della presenza di fattori di rischio associati (Tabella 3)25.
Sebbene da tempo sia universalmente riconosciuto che il warfarin è efficace nella prevenzione dell'ictus nei pazienti con fibrillazione atriale reumatica26, gli studi randomizzati pubblicati negli ultimi 10 anni hanno documentato i benefici della terapia antitrombotica (con warfarin o aspirina) anche nei pazienti con FA non reumatica. Due aspetti inerenti i risultati ottenuti meritano particolare attenzione. In primo luogo, la terapia antitrombotica previene efficacemente gli ictus di qualsiasi gravità e gli ictus che si verificano nei pazienti che assumono warfarin o aspirina non sono più gravi di quelli che si manifestano nei pazienti trattati con placebo. In secondo luogo, anche se gli studi retrospettivi hanno suggerito che la FA parossistica possa essere associata ad un rischio più basso di ictus rispetto alla FA cronica, l'analisi dei risultati degli studi più recenti, dopo il controllo di tutti i fattori di confondimento, indica che nei pazienti con FA cronica o parossistica il rischio di ictus e i benefici della terapia antitrombotica sono simili27,28.
La terapia antitrombotica non è esente da rischi (soprattutto quello del sanguinamento) o inconvenienti. Gli studi clinici hanno dimostrato che il rischio di emorragie extracraniche maggiori aumenta leggermente nei pazienti trattati con warfarin (dello 0,3% all'anno)29, ma va detto che da questi studi sono stati esclusi molti pazienti (dal 53% al 93%), spesso proprio per il rischio emorragico e i pazienti arruolati mostravano una maggiore propensione a rispettare le indicazioni ricevute ed erano seguiti con maggiore attenzione da parte dei medici. Anche se è improbabile che nella pratica clinica corrente possa ripetersi la ridotta incidenza di sanguinamenti osservata negli studi, i fattori di rischio per emorragia con warfarin sono oggi meglio definiti30-31 ed è quindi possibile individuare i soggetti a rischio emorragico più basso nei quali iniziare il trattamento. Uno studio di coorte prospettico effettuato in pazienti anziani con FA conferma che il rischio emorragico con warfarin può essere simile a quello registrato negli studi clinici32.
In sintesi, pur essendo ampiamente dimostrato che il warfarin è il farmaco più efficace in assoluto nel prevenire l'ictus, ogni paziente con FA presenta un diverso livello di rischio di ictus e un diverso grado di beneficio ottenibile col trattamento (Tabella 3). La decisione se utilizzare il warfarin, l'aspirina, o nessuno dei due, in un paziente con FA andrà valutata sulla base del rischio individuale. A titolo di esempio si possono citare 2 casi: quello del paziente con meno di 65 anni senza altri fattori di rischio importanti, nel quale, considerato il basso rischio embolico, è opportuno astenersi dal trattamento profilattico, e quello del paziente di età compresa tra 65 e 75 anni nelle stesse condizioni, nel quale è indicato il warfarin e nel quale l'aspirina potrà rappresentare una utile alternativa in caso di controindicazione al trattamento anticoagulante. Terapia antitrombotica dopo infarto miocardico
Il rischio di ictus ischemico aumenta dopo un infarto miocardico, in modo particolare durante il primo mese e nei pazienti con insufficienza ventricolare sistolica sinistra33-34. Una metanalisi di oltre 140 studi (più di 72.000 pazienti complessivi) ha indicato che l'aspirina riduce il rischio di ictus non fatale (riduzione dell'odds del 31%; 95% IC 24%-37%) nei pazienti che hanno avuto un infarto miocardico o un altro evento vascolare35. Trattamento del diabete
I pazienti diabetici sono a maggior rischio di ictus ischemico ed hanno maggiori probabilità, rispetto alla popolazione generale, di essere affetti da ipertensione arteriosa e iperlipidemia2. Sulla base delle attuali conoscenze non è possibile affermare che un miglior controllo glicemico sia associato ad un minor rischio di ictus.
Nessuno dei tre studi randomizzati di più ampie dimensioni volti ad indagare l'influenza del controllo glicemico ha dimostrato una riduzione significativa del rischio di ictus ischemico né di altri eventi macrovascolari36-37. Tra le ragioni del mancato beneficio non può essere citata la mancanza di potenza statistica degli studi che hanno coinvolto i pazienti con diabete di tipo 2. Per esempio, nello studio UKPDS (United Kingdom Prospective Diabetes Study) si sono verificati molti più eventi macrovascolari che microvascolari (es. un numero di infarti miocardici quasi doppio rispetto a quello di tutti gli eventi microvascolari combinati). Lo studio ha, però, dimostrato una riduzione relativa del 25% (95% IC, 7%-40%) delle complicazioni microvascolari con un controllo più stretto della glicemia38. All'interno dell'UKPDS era inserito un piccolo studio randomizzato che confrontava uno stretto controllo pressorio (<150/85 mmHg) con un controllo pressorio standard (<180/105 mmHg). Questo sotto-studio ha dimostrato che con un controllo più stretto della pressione arteriosa si ottiene una riduzione relativa del 44% (95% IC, 37%-90%) del rischio di ictus39. I benefici in termini di ictus sono indipendenti dal livello di glicemia e dal regime antipertensivo adottato. Abolizione del fumo
Non esistono studi randomizzati di buona qualità che abbiano valutato l'effetto dell'abolizione del fumo sul rischio di ictus. Tuttavia, considerati i dati provenienti dagli studi osservazionali (Tabella 2), la raccomandazione di smettere di fumare andrebbe sempre fatta ai pazienti40. Secondo quanto indicato da uno studio di coorte, il rischio di ictus diminuisce dopo l'abolizione del fumo e tende ad eguagliare quello dei non fumatori nell'arco di 5 anni41. La diminuzione del rischio risulta indipendente dall'età del paziente a dimostrazione del fatto che non è mai troppo tardi per smettere di fumare. Alcune revisioni sistematiche hanno evidenziato come un invito a smettere di fumare rivolto al paziente dal medico nel corso di una normale visita ambulatoriale possa tradursi in una percentuale di astensioni dal fumo del 2% della durata minima di 1 anno42-44. Similmente, possono aumentare il tasso di astensioni la terapia sostitutiva con nicotina, alcuni antidepressivi e il consiglio di psicologi e infermieri45-46. Terapia antiaggregante
L'efficacia dell'aspirina nella prevenzione primaria dell'ictus è controversa: 4 studi osservazionali hanno dimostrato una stretta correlazione tra assunzione regolare di aspirina e aumentato rischio di ictus47. In questi studi, tuttavia, l'uso dell'aspirina veniva auto-determinato e può esservi stata una diseguale distribuzione dei fattori di rischio che ha condizionato i risultati. Una metanalisi di 5 studi randomizzati47 e altri 3 singoli studi randomizzati48-50 hanno valutato l'uso dell'aspirina a vari dosaggi (75-990mg/die) nei confronti del placebo nella prevenzione primaria dell'ictus (per un totale di 59.977 pazienti). L'aspirina ha ridotto l'incidenza di tutti gli eventi cardiovascolari (RR 0,89; 95% IC 0,82-0,96), ma soprattutto in virtù della marcata riduzione del rischio di infarto miocardico. L'aspirina, infatti, ha comportato un aumento del rischio di ictus, anche se marginale (RR 1,07; 95% IC 0,95-1,22), in modo particolare di ictus emorragico. Con l'impiego dell'aspirina si è registrato anche un aumento del rischio di emorragie maggiori (RR 1,53; 95% IC 1,15-2,04). Pertanto, se da un lato l'uso dell'aspirina può essere utile nella prevenzione primaria dell'infarto miocardico, dall'altro non lo è nella prevenzione primaria dell'ictus. ACE-inibitori
I limiti metodologici che contraddistinguono gli studi di confronto tra i diversi farmaci antipertensivi rendono difficilmente interpretabili i risultati51, ma è improbabile che gli ACE-inibitori conferiscano una protezione nei confronti dell'ictus superiore a quella di altre classi di antipertensivi (i dati tendono, anzi, ad indicare un possibile trend positivo a favore degli altri farmaci)11. Una revisione sistematica di 4 studi controllati con placebo ha, però, evidenziato come, nei pazienti con coronaropatia documentata, gli ACE-inibitori siano associati con una riduzione relativa del 30% del rischio di ictus (95% IC 15%-43%)11. Più del 94% degli ictus considerati dalla metanalisi provengono da un unico studio, l'HOPE (Heart Outcomes Prevention Evaluation)52. Nello studio HOPE, 9.297 pazienti normotesi (pressione media 139/79 mmHg) "ad elevato rischio di eventi cardiovascolari" sono stati randomizzati a ramipril o a placebo52. L'HOPE viene spesso citato come studio di prevenzione primaria, ma al momento dell'arruolamento, l'88% dei pazienti presentava una cardiopatia conclamata. Nel corso di 4 anni, si è registrata una riduzione del rischio di ictus del 32% (95% IC 16%-44%)52. Non è chiaro, tuttavia, quanto del beneficio osservato debba essere attribuito alla riduzione della pressione arteriosa in sé o ad un effetto specifico del ramipril sull'aterogenesi. Pertanto, l'uso del ramipril potrebbe essere preso in considerazione solo laddove si ritenga che il paziente iperteso, pur avendo la pressione arteriosa ben controllata, rimanga ad elevato rischio trombotico per la presenza di una coronaropatia, di una vasculopatia periferia o di diabete. Endoarteriectomia carotidea per stenosi asintomatica
Nei pazienti con malattia carotidea asintomatica, non si sa quale debba essere la strategia terapeutica migliore. Una revisione sistematica di 5 studi randomizzati (più di 2.400 pazienti complessivamente valutati) che hanno confrontato l'endoarteriectomia carotidea con la terapia medica in pazienti con stenosi carotidea asintomatica superiore al 50% ha indicato come il rischio di ictus e di morte sia più alto nel periodo immediatamente successivo all'intervento (aumento RR del 423%; 95% IC 127%-1.107%)53. Nell'arco di 3 anni, il rischio di end point combinato di ictus o morte è diminuito (riduzione RR del 30%; 95% IC 9%-45%) e questo suggerisce la necessità di identificare i sottogruppi di pazienti a minor rischio di complicazioni chirurgiche che potrebbero beneficiare maggiormente del trattamento chirurgico. Prevenzione secondaria
Quali sono le strategie più efficaci?
Il 7% circa dei pazienti con una storia di ictus o TIA ogni anno va incontro ad un secondo evento vascolare cerebrale54. I trattamenti di prevenzione secondaria dell'ictus hanno un profilo di beneficio/costo più favorevole rispetto a quelli di prevenzione primaria in virtù del fatto che le riduzioni relative del rischio risultano spesso costanti a tutti i livelli di rischio cardiovascolare basale (almeno per quello che riguarda i trattamenti medici), indicando come le riduzioni assolute del rischio risultino molto più consistenti (e di conseguenza il numero di pazienti da trattare per scongiurare un evento sia molto più basso) nei pazienti a rischio più alto (es. quelli che hanno già avuto un ictus). L'impatto delle varie strategie di trattamento viene riassunto nella Tabella 2.
Trattamento dell'ipertensione
Esiste una correlazione stretta, permanente e direttamente proporzionale, tra i livelli di pressione arteriosa e l'incidenza di ictus nei pazienti che hanno già un problema cerebrovascolare55; una revisione sistematica degli studi conferma che questo rischio può essere ridotto con un trattamento antipertensivo (riduzione RR del 28%; 95% IC 15%-39%)56. Lo studio recente PROGRESS (Perindopril PROtection Against Recurrent Stroke Study)57rinforza ulteriormente queste conclusioni. Lo studio intendeva valutare il beneficio ottenibile nella riduzione della pressione arteriosa con l'uso di un ACE-inibitore nella prevenzione secondaria dell'ictus, ma in realtà, per l'impostazione alquanto complessa, può essere considerato un test su due diversi obiettivi di controllo pressorio. Tra il gruppo trattato con perindopril e quello trattato con placebo vi era una differenza di pressione arteriosa media di 9/4 mmHg, associata con una riduzione relativa del rischio di ictus del 28% (95% IC 17%-38%). I medici, tuttavia, al momento della randomizzazione, potevano decidere se optare per un trattamento antipertensivo più o meno intensivo; se la scelta cadeva sul controllo pressorio più stretto, i pazienti venivano randomizzati all'associazione tra perindopril e indapamide o al doppio placebo. Rispetto al placebo, il perindopril da solo ha prodotto una differenza di 5/3 mmHg nei valori di pressione arteriosa senza alcun beneficio sul versante degli ictus (riduzione del rischio del 5%; 95% IC 19%-23%), mentre con l'associazione tra perindopril e indapamide si è ottenuta una differenza di 12/5mmHg nella pressione e una riduzione del 43% (95% IC 30%-45%) nel rischio relativo di ictus. Perciò, i benefici del trattamento antipertensivo sembrano dipendere più dai livelli pressori raggiunti che dal tipo di farmaco utilizzato. Tuttavia, data la povertà di studi clinici controllati, non si sa di quanto e quanto rapidamente debba essere ridotta la pressione dopo un ictus. Su un fatto vi è consenso generale: nell'evento acuto la pressione arteriosa elevata non va trattata (per evitare di aggravare ulteriormente le aree ischemiche) ed è consigliabile lasciare trascorrere 2 settimane dall'ictus prima di iniziare la terapia antipertensiva. Trattamento dell'iperlipidemia
Ad oggi l'unico studio clinico prospettico randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, sul trattamento ipolipemizzante nella prevenzione secondaria dell'ictus è lo studio HPS58, condotto su una popolazione di oltre 20.500 individui di età compresa tra 40 e 80 anni. L'HPS ha incluso specificamente pazienti ad alto rischio coronarico, ma con caratteristiche che li avevano fatti escludere dagli studi precedenti sulle statine: donne, anziani, diabetici, soggetti a bassa colesterolemia e, soprattutto, con vasculopatia occlusiva non coronarica (es. ictus non invalidante, TIA).
Il trattamento per 5 anni con simvastatina (40mg/die) ha dimostrato di prevenire almeno un evento cardiovascolare maggiore (ictus, infarto, rivascolarizzazione) in circa 70-100 persone ogni 1.000 (7%-10%)58. L'entità del beneficio per il singolo paziente è dipesa principalmente dal rischio individuale cardiovascolare assoluto piuttosto che dai soli valori di colesterolemia pre-trattamento. In particolare, si è avuta una riduzione proporzionale di eventi cardiovascolari maggiori altamente significativa del 25% tra i partecipanti senza storia di coronaropatia pregressa con riduzioni significative tra pazienti non coronaropatici ma con cerebrovasculopatia o vasculopatia periferica o diabete. Nei pazienti con storia di ictus o di TIA con valori aumentati di colesterolo, sono quindi indicati tutti gli interventi necessari per abbassare il colesterolo. Al momento le evidenze più rilevanti sono a favore della simvastatina. Terapia antitrombotica nei pazienti con FA
Quattro studi randomizzati indicano quali siano le strategie da adottare per evitare un secondo evento cerebrovascolare nei pazienti che hanno già avuto un ictus o un TIA59-62. I risultati di questi studi confermano la possibilità di ottenere un beneficio sostanziale con l'uso del warfarin a dosaggio individualizzato (riduzione RR del 68% rispetto al placebo; riduzione RR del 71% rispetto a warfarin a basso dosaggio) e un beneficio minore, ma statisticamente significativo, con aspirina (riduzione RR del 17-29% verso placebo). Le riduzioni relative del rischio sembrano simili a quelle osservate negli studi di prevenzione primaria, ma nei pazienti con storia di ictus o TIA, considerato il loro rischio basale di ictus molto più alto (Tabella 3), il beneficio assoluto è senz'altro maggiore.
Non si sa quale sia il momento più adatto per iniziare il trattamento con warfarin. In genere si raccomanda di non impiegare un anticoagulante nei primi giorni dopo un ictus ischemico, soprattutto se l'area infartuata è estesa, per il rischio che possa sanguinare63. Terapia antiaggregante
Una revisione sistematica recente di 287 studi randomizzati in pazienti ad alto rischio ha dimostrato che gli antiaggreganti piastrinici riducono in modo significativo il rischio di ictus (riduzione dell'odds del 31%)35. Non sembrano esservi differenze tra dosi alte (500-1.000 mg/die) e dosi medie (75-325 mg/die) di aspirina, ma il numero di eventi vascolari registrati negli studi è stato basso35. Una seconda revisione sistematica è giunta a conclusioni analoghe: l'aspirina diminuisce il rischio di ictus nei pazienti con storia di ictus o di TIA senza correlazione apparente tra dose e risposta clinica64. L'effetto protettivo dell'aspirina risulta, pertanto, uniforme per dosi comprese tra 50mg e 1.500 mg al giorno, mentre le dosi più alte aumentano il rischio di emorragie gastrointestinali65. La dose minima efficace di aspirina non è stata ancora identificata, ma appare ragionevole raccomandare una dose giornaliera di 100 mg.
Una revisione sistematica di 4 studi (per un totale di più di 22.000 pazienti) indica che le tienopiridine [clopidogrel (75 mg al giorno) e ticlopidina (500 mg al giorno)] sono leggermente più efficaci dell'aspirina nel ridurre il rischio dell'end point combinato di ictus, infarto miocardico o morte vascolare nei pazienti ad alto rischio di eventi vascolari (riduzione RR dell'8%; 95% IC 2%-14%)66. Nei pazienti con storia di ictus, le tienopiridine diminuiscono il rischio relativo di ictus del 13% (95% IC 3%-22%) in più rispetto all'aspirina66. Con l'uso delle tienopiridine sia ha un minor rischio di sanguinamenti gastrointestinali, ma un rischio maggiore di rash e di diarrea (soprattutto con la ticlopidina). Allo stesso modo, i pazienti che assumono ticlopidina risultano ad aumentato rischio di neutropenia (odds ratio 2,7; 95% IC 1,5-4,8). Non vi sono dati sufficienti per stabilire quale sia il sottogruppo di pazienti che potrebbe beneficiare maggiormente del trattamento con tienopiridine al posto dell'aspirina.
L'aggiunta di dipiridamolo (400mg/die) all'aspirina non si traduce in un beneficio significativo rispetto all'uso della sola aspirina35, ma uno studio randomizzato ha evidenziato come l'uso combinato di aspirina e dipiridamolo in una formulazione a lento rilascio possa comportare una riduzione significativa del rischio di morte67. Lo studio ESPIRIT68 (nel quale i pazienti con precedente ictus o TIA vengono randomizzati a warfarin, dipiridamolo e aspirina e ad aspirina da sola), una volta completato, potrà dare una risposta autorevole su questo punto. Endoarteriectomia carotidea
Una revisione sistematica di 3 studi randomizzati ha dimostrato che l'endoarteriectomia carotidea riduce il rischio di ictus o di morte nei pazienti con malattia carotidea sintomatica e grave stenosi carotidea definita come stenosi del 70%-99% secondo il criterio adottato dal North American Symptomatic Carotid Endarterectomy Trial (NASCET) (riduzione RR del 48%, 95% IC 27%-73%)69. Similmente, i pazienti con stenosi carotidea moderata, definita come stenosi tra 50% e 69% secondo i criteri NASCET vedono ridursi il rischio di ictus o di morte dopo l'intervento, ma i benefici risultano inferiori (riduzione RR del 27%; 95% IC 15%-44%). Nei pazienti con stenosi carotidea inferiore a 50% secondo i criteri NASCET, l'intervento di endarterectomia si rivela pericoloso (aumento RR del 20%; 95% IC 0%-44%).
I risultati di questi studi sono applicabili solo nel caso in cui le complicazioni chirurgiche siano inferiori al 6%. I benefici dell'endoarteriectomia carotidea si ridurrebbero, infatti, del 20% ogni aumento del 2% di ictus e morte nel periodo perioperatorio70. Inoltre, va detto che molte delle equipe chirurgiche che effettuano gli interventi di endoarteriectomia, per percentuali di complicazioni e numero di interventi effettuati, non rientrerebbero negli standard minimi fissati dallo studio NASCET71.
Non tutti i pazienti con lesioni operabili traggono vantaggio dall'intervento. Sulla base degli studi realizzati sull'endoarteriectomia carotidea è possibile identificare le caratteristiche angiografiche e cliniche che aumentano il rischio di ictus e di mortalità intraoperatoria. Il fatto che in alcuni casi si sia trattato di studi osservazionali può aver portato ad una sovrastima dei rischi. Cinque connotati clinici sono associati con un aumentato rischio di ictus e di morte intraoperatoria: l'intervento per ictus (vs intervento per amaurosi fugace), il sesso femminile, l'età oltre i 75 anni, una pressione sistolica superiore ai 180 mmHg e una storia pregressa di vasculopatie periferiche. Aumentano il rischio di ictus e di morte anche reperti angiografici di occlusione della carotide interna controlaterale e stenosi della porzione intracranica della carotide interna ipsilaterale e della carotide esterna ipsilaterale. Bibliografia 1. American Heart Association. 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