Come forse suggerisce il titolo, il tema dell'editoriale è tutt'altro che nuovo per IsF. Ne costituisce anzi talmente un leit-motiv da rischiare di essere noiosamente ripetitivo. Quasi una ostinazione del voler proporre un percorso non percorribile, o una ipotesi di lavoro che non ha mercato. E' vero d'altra parte che i commenti editoriali devono, con una certa frequenza, essere l'occasione perché quanto viene pubblicato nel corpo dei bollettini sia un riflesso ragionevolmente aggiornato di ciò che succede (più o meno ripetitivamente) nel mondo. E questa volta, alla luce dei contributi che propongono messe a punto su Paget , aprotinina e soprattutto farmaci stabilizzanti l'umore, il ritorno al tema e alle caratteristiche della "orfanità" nel settore farmaci è d'obbligo. Per motivi e secondo modalità certo molto diverse, i tre problemi hanno in comune e mettono in luce una regola del gioco che è vecchia, che ha però il difetto (non tranquillizzante) di essere sempre più attuale. La si può formulare così: si consolida in medicina una tendenza a produrre sempre più dati su ciò che è già noto con formalità metodologiche sostanzialmente corrette (le eccezioni, come ri-documentato per COXIB o farmaci cardiovascolari sono più sul lato dei conflitti di interessi), "evedence based", mentre situazioni, problemi, popolazioni che hanno bisogno di conoscenze più certe e rilevanti continuano a rimanere anche metodologicamente (e per conseguenza anche nei fatti) orfane.
Pur nell'ambito di un mercato globale (che mira cioè, "naturalmente", ad affermare la propria identità di fondo, che è quella di espandere il proprio territorio e gli interessi), si accentua di fatto uno iato ulteriore: il rispetto almeno culturale, di facciata, delle regole e del rigore metodologico, viene richiesto ad alcuni settori "maturi", mentre si applica una politica di tolleranza per settori che si considerano tanto più interessanti quanto più li si rendono sfumati, diagnosticamente incerti, per sfruttarne, e potenziarne la già naturale carica emotiva. La nota sui farmaci stabilizzanti l'umore è quella più "rappresentativa" in questi termini, rimandando facilmente ad aree macroscopiche che le assomigliano: basti pensare all'insieme dei problemi cognitivi, di comportamenti, di fragilità degli anziani. La ripetitività di questa nota non vuole essere tanto perversa da riprendere analisi del perché e del come ciò accade. Riprende solo l'ultimo punto dell'"aggiornamento" (atipico, per evocare anche più esplicitamente un'altra categoria di farmaci che rientra in questo ambito di attenzione). La domanda formulata è: che cosa succede ai/alle pazienti che, al di là degli umori dei mercati, ci sono (anche se un pò "creati" con tecniche accurate, o almeno "gonfiate" per svilupparne le caratteristiche che li rendono "recettori" di farmaci), e non stanno bene.
L'intenzione ripetitiva si concentra dunque su una domanda-proposta, che era anche al centro del recente Seminario dell'ISDB di Verona ("Il ruolo dell'informazione indipendente sui farmaci"): è ancora possibile proporre-sperare che i tanti dibattiti sulla indipendenza dell'informazione lascino il passo, lo spazio, il tempo, l'intelligenza alla verifica della capacità intellettuale ed operativa di indipendenza nel produrre le conoscenze che mancano da parte di chi (professionalmente ed istituzionalmente) ha la responsabilità della presa in carico di questi pazienti-cittadini-con-problemi?
Non si tratta di fare appelli alla ricerca. Pazienti-problemi come quelli sopra evocati sono orfani di attenzione e di risposte nel loro quotidiano. E, nel quotidiano, sono assegnati a gestioni (diagnostico-terapeutiche-assistenziali) basate sulla non-evidenza, sulla parzialità, sul "può darsi", "vedremo la prossima volta", "proviamo anche questo".
C'è un'assenza macroscopica al di là di autorità regolatorie regionali e globali ("AIFA in questo campo ha fatto/fa già molto nel limite delle sue competenze"): è quella delle società scientifiche, delle reti dei servizi, della medicina generale, nell'identificare le orfanità di conoscenza in modo esplicito: non per ampliare il coro di chi denuncia e si lamenta; ma per porsi seriamente nella posizione di chi sa che il riconoscimento-adozione del bisogno per ciò che è, è il primo passo metodologicamente corretto per formulare strategie responsabili. Se la diagnosi di fondo (al di là delle tante sue formulazioni specifiche) è quella di orfanità di conoscenza, l'unica risposta ragionevole è la terapia (preventiva? curativa? sperimentale? osservazionale?) della presa in carico conoscitiva (=che non fa finta di contentarsi dell'ultima conoscenza parziale-provvisoria-finta che viene proposta, ma che da quella parte, per produrre conoscenza affidabile).
Si è già più volte ritornati sul modello dello Studio Italiano sulla Depressione (ISD, che, con fatica - ma torneremo su questo- è decollato bene). E' un "piccolo" modello, per una situazione che può essere esemplare. Dovrebbe essere la regola, che non aspetta bandi AIFA, o altro. Medici di medicina generale, specialisti, ecc. non dovrebbero essere "reclutati", "formati"; nel quotidiano, su tutte/i le/i pazienti producono non-conoscenza, forse non-assistenza responsabile. La metodologia dell' adozione per produrre conoscenze non è complicata nelle sua procedura e nei suoi strumenti. Anzi. E', solo, una scelta culturale. Quella di avere progetti, e di non accontentarsi di un ruolo di spettatori. E' (l'unica) una opzione di indipendenza che tocca direttamente l'identità di tutti noi che lavoriamo nell'informazione, attraverso le conoscenze e ancor più le pratiche.
La ripetitività sta divenendo eccessiva. Non ci si ritornerà più. Si proverà, con chi vorrà, a fare informazione che propone "adozioni conoscitive" per i problemi orfani di evidenze serie (maggiori perché dati in "affidamento" da autorità regolatorie e scientifiche che pensano che chiamare gli orfani, o i marginali, e via dicendo con nomi più definiti, significa farli scomparire come problema).