Il manifestarsi di una grave emorragia è evenienza tutt'altro che infrequente in campo chirurgico ed è clinicamente rilevante in molte situazioni mettendo a rischio la vita stessa del paziente. Tra di esse vanno in particolare menzionate quelle in corso di procedure cardiovascolari (CABG e chirurgia valvolare). Un sanguinamento maggiore (definito come una perdita del 20% o più del volume ematico totale) può richiedere un rilevante apporto trasfusionale, una revisione chirurgica del campo operatorio o, una volta escluso un difetto emostatico, l'impiego di una terapia farmacologica. Quest'ultima si basa sulla disponibilità di alcuni farmaci quali gli antifibrinolitici (acido aminocaproico e tranexamico) o di un inibitore proteasico d'origine bovina, l'aprotinina in grado di inibire la plasmina. L'aprotinina è stata oggetto di recente di una rinnovata attenzione perché accusata di una potenziale tossicità. Questa breve nota prende spunto dalla vicenda che ha portato al ritiro dal commercio del farmaco per riprendere in esame le problematiche connesse alle difficoltà che tuttora esistono quando si vuole valutare con certezza il profilo di sicurezza di un farmaco.
L'aprotinina veniva approvata dalla FDA nel 1993 perché dimostratasi in grado di ridurre le perdite ematiche e il fabbisogno emotrasfusionale in corso di chirurgica cardiaca in misura significativamente maggiore rispetto al placebo. Da allora sino al 2006, il farmaco è stato somministrato a oltre 200.000 pazienti senza che venissero segnalati problemi di tollerabilità. Analoga efficacia terapeutica era dimostrabile anche dagli analoghi lisinici, l'acido aminocaproico e tranexamico, meno costosi, senza però che tale indicazione fosse approvata dalla FDA. Peraltro, nonostante il potenziale protrombotico del farmaco (un antifibrinolitico), durante i primi 14 anni della sua commercializzazione, né dal database dell'industria produttrice (Bayer) né dai numerosi studi clinici post-marketing, provenivano informazioni riguardanti segnali di allarme sul versante della sicurezza. Nel 2006 però, due studi osservazionali sollevavano dubbi concreti sulla tollerabilità del farmaco, confermando qualche analogo sospetto riscontrato proprio al momento della registrazione della nuova indicazione. L'aprotinina, infatti, aumentava rispetto al placebo il rischio di insufficienza renale, infarto del miocardio, ictus e mortalità a 5 anni. Questo aumento del rischio non era evidente, invece, nei paziente trattati con gli analoghi lisinici. Non solo, ma altri due studi osservazionali, di recente pubblicazione, condotti in pazienti sottoposti a CABG e trattati con aprotinina confermavano un incremento della mortalità a breve e lungo termine rispetto ai pazienti trattati con acido aminocaproico (quest'ultimo indicato da alcuni esperti come la scelta terapeutica migliore per ridurre le perdite ematiche in corso di chirurgia vascolare).
A seguito dei risultati di questi studi osservazionali, la FDA richiamava i medici a porre maggiore attenzione al rischio di tali effetti indesiderati e a monitorare attentamente i pazienti a maggior rischio di eventi avversi renali, cardiaci e cerebrali. Alla fine di ottobre 2007, il "drug and safety monitoring commettee" di uno studio randomizzato canadese (il BART) che comparava l'aprotinina con gli analoghi lisinici, decideva di interrompere lo studio in quanto una "interim analysis" di oltre 2.000 pazienti confermava un aumento della mortalità a 30 giorni nel gruppo di pazienti trattati con l'aprotinina, ma non in quello che riceveva acido tranexamico e aminocaproico. La FDA disponeva il ritiro del farmaco in tutto il mondo in attesa di una analisi più appropriata dei dati derivati da un nuovo studio "ad hoc" (caratterizzato da un "restricted access protocol"). Nel frattempo la FDA convocava i propri esperti in un meeting per riesaminare i dati di sicurezza dell'aprotinina, raccolti nei numerosi studi pubblicati nonché quelli in possesso della Bayer nel suo database. Quest'ultimo includeva 45 studi clinici con 2.249 pazienti trattati con l'aprotinina e 2.164 che avevano ricevuto placebo. L'analisi era però limitata agli eventi avversi occorsi entro 7 giorni dopo la somministrazione dell'aprotinina e includeva 520 morti per eventi cardiovascolari e renali. Una analisi approfondita dei dati non rilevava in apparenza alcun incremento del rischio per eventi cardiovascolari fatali e non fatali.
Dopo pochi giorni dalla conclusione del meeting, la FDA veniva, però, informata della disponibilità di altri dati di sicurezza derivati da uno studio osservazionale che coinvolgeva 67.000 pazienti. I dati confermavano che l'uso della aprotinina comportava un incremento di rischio di morte, di insufficienza renale, di insufficienza cardiaca e di ictus.
A fronte di dati simili non ci possiamo esimere dal formulare alcune domande e fare alcune considerazioni.
Come si può giustificare il fatto che un farmaco rimasto in commercio per 14 anni per una utilizzazione in pazienti "a rischio" elevato per eventi gravi, talora letali, possa rivelarsi poi dotato di un profilo di sicurezza non accettabile e nel contempo diventare farmaco di scelta per un'importante indicazione
Perché farmaci analoghi, meno costosi e forse con un profilo di tollerabilità più favorevole (vedi acido aminocaproico) non vengono studiati in modo adeguato con potenziali vantaggi sia economici che di salute pubblica?
Perché malgrado il fatto che preoccupazioni motivate sulla potenziale trombogenicità e nefrotossicità del farmaco fossero state espresse sin dall'inizio della sua registrazione e immissione in commercio, ciò non è bastato a stimolare una ricerca che chiarisse il reale rapporto beneficio/rischio del farmaco, né tantomeno, a fornire informazioni sulle modalità di prevenzione di tali effetti indesiderati?
Perché non si è condotto uno studio testa/testa randomizzato di grandi dimensioni che confrontasse l'aprotinina con gli analoghi lisinici senza doversi basare sui dati meno precisi e convincenti forniti dagli studi osservazionali?
L'intera vicenda richiama molto da vicino un'altra storia, quella dei COXIB e fornisce, ove ve ne fosse bisogno, un chiaro esempio dei limiti delle nostre capacità di valutare comparativamente il rapporto efficacia/sicurezza dei nuovi farmaci. Gli studi pre-marketing risultano inadeguati perché spesso prevedono un confronto col solo placebo e sono di potenza inadeguata. Gli studi osservazionali mostrano limiti evidenti (presenti anche in questa vicenda) al pari delle metanalisi che, basate troppo spesso su dati provenienti da studi di piccole dimensioni, possono portare a conclusioni fuorvianti come è successo anche in questo caso (due metanalisi non sono riuscite a svelare la maggiore tossicità della aprotinina).
La lezione più importante che si ricava dell'intera questione è quella di riaffermare con forza la necessità di condurre studi randomizzati adeguati, per potenza e disegno sperimentale, di tipo testa/testa, prima di mettere a disposizione della comunità nuove molecole. Questi studi (pre-marketing o post-marketing se necessari) costituiscono l'arma vincente per una valutazione obiettiva e scientificamente attendibile della efficacia e tollerabilità dei nuovi farmaci, ma non verranno mai realizzati spontaneamente dall'industria farmaceutica in quanto privi di interesse commerciale, se non addirittura rischiosi, oltre ché estremamente onerosi. Spetta alle autorità sanitarie di controllo e alle norme che regolano il mercato trovare soluzione al problema. Lo "FDA Amendement Act" del 2007 sembra andare verso una prima modifica della legislazione americana che darebbe maggior potere alla Agenzia (FDA), consentendole, ove necessario, di obbligare l'industria a eseguire studi di questo genere.
V'è da sperare che una simile norma possa trovare efficace attuazione anche in Europa (EMEA).
L'ultima considerazione, ma non certo per importanza, è quella che ancora una volta l'industria ha cercato sino in ultimo di negare l'esistenza di un rilevante problema di sicurezza, tacendo i dati a sua disposizione e non facendo una informazione corretta nei confronti dei medici e dei pazienti. Sarà una coincidenza, ma la stessa azienda è stata già fortemente criticata nel recente passato per aver cercato di nascondere i problemi di tossicità grave causati da un suo farmaco, la cerivastatina.
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