Premessa
E' un po' difficile classificare in modo preciso la tipologia e la logica di questo contributo: suggerito dall'idea di fare il punto su un argomento come quello definito dal titolo secondo i criteri classici (analisi della letteratura, con attenzione specifica alle revisioni sistematiche ed alle linee guida), il lavoro si è trasformato, strada facendo, in un percorso un po' diverso. E' un aggiornamento su un capitale di diagnosi-terapie che finisce per concentrarsi, proprio per essere fedeli a ciò che la letteratura fa vedere, in una riflessione su ciò che sta dietro ed intorno, e che non interessa solo (né forse principalmente) le patologie ed i farmaci indice, ma piuttosto i rapporti che si instaurano tra pazienti/popolazioni (che sono certamente portatori di bisogni spesso non banali), e prescrittori-curanti, quando ci si trova ad incrociare-gestire problemi che chiedono un intervento, un fare, al quale non corrispondere una conoscenza ragionevolmente certa, quello che viene chiamato un sapere.
Quadro di riferimento
La bibliografia essenziale, da cui derivano le proposte di riflessione che seguono, è citata in ordine cronologico, per offrire un quadro il più aggiornato e sintetico possibile (le referenze citate nei lavori coprono veramente tutto quanto era stato coperto anche nelle riviste specialistiche) al termine del contributo. Per chi è interessato, o dubbioso sulla fondatezza del percorso che viene proposto (così parsimonioso di dati classici, tabelle, grafici, numeri) è utile farne una lettura complessiva: per avere presente il quadro generale, che è quello che conta, più che la verifica dell'uno o dell'altro dei punti attraverso cui si articola il percorso.
1- La categoria di farmaci che ci interessa riprende una definizione di uso corrente. Come spesso capita, le cose date per scontate vengono prese come dati di fatto, o definizioni di realtà ben consolidate. Non c'è dubbio che anche una attenzione solo un po' meno "scatenata"ai termini utilizzati non conferma la ragionevolezza di una accettazione tranquilla. E' proprio difficile sapere a che cosa ci si riferisce con la categoria nosologica "umore"; il rimando più gettonato è alla categoria diagnostica dei disturbi bipolari, che sono un capitolo tanto importante quanto controverso della patologia psichiatrica. Che cosa è successo perché, ad una definizione sostanzialmente chiara e condivisa (e ripresa senza ombra di dubbio dalle revisioni citate), venga preferito un termine che è già indefinibile nel linguaggio comune ("umore"), è difficile saperlo, o sarebbe troppo lungo indagarlo, storicamente e culturalmente.
2- Il fenomeno di un alleggerimento della definizione diagnostica per dare spazio a sottocategorie diagnostiche "apparentate" ai rispettivi trattamenti in cerca di indicazioni soft e flessibili, non è nuovo, specie per patologie che vengono ricondotte alla sfera dei comportamenti (che è già qualcosa di più definitivo, e certo distinto, dall' "umore"). Basta pensare ai farmaci antidepressivi, passati da essere strumenti mirati e parzialmente efficaci per una patologia clinicamente seria come la depressione maggiore, ad essere modalità di accompagnamento di uno spettro di situazioni di disagio, ansia, che evocano la depressione come diagnosi, ma di fatto coincidono con profili di sintomi di diversa e variabilissima gravità, durata, evoluzione.
3- Il problema di un ri-aggregare, e trasformare in nuove quasi-diagnosi, situazioni che permettono di ampliare i denominatori dei pazienti che sono i potenziali destinatari di farmaci, non è esclusivo del settore dei disturbi mentali: il caso più macroscopico è quello della sindrome metabolica, sulla cui definizione si è andati (e si va), da esercizi sommatori di diagnosi che sono compresenti in [molti] pazienti, a ipotizzare e cercare di documentare una specificità eziologica, diagnostica, di intervento.
4- E' curiosa (istruttiva?) la provenienza di [quasi] tutti i farmaci stabilizzanti l' "umore" (vedi Tabella). Hanno in comune sostanzialmente l'origine "neurologica": controllori [stabilizzanti?] di convulsioni, con dati di efficacia e penetrazione nella clinica più o meno consolidati; [proposti come] risolutori di situazioni di dolore di origine neurologica. La loro indicazione specifica/nuova per l'umore sembra così ricostruire per un momento la continuità neuro-psichiatrica, attraverso la [proposta di una] attività antica ed aspecifica (e non facilmente dimostrabile) di stabilizzatori di membrane, di innalzamento delle soglie della loro eccitabilità.
5- Rispetto allo scenario neurologico, lo sconfinamento nel comportamentale-psichiatrico comporta certo una difficoltà, clinica e semantica: che cosa significa stabilizzare una situazione clinica che alterna " bipolarmente" eccitazione e depressione? E' vero che a questo viene incontro un [sempre in progress] lavoro di ri-aggiustamento della definizione classica di disturbo bipolare, per fare anche di questa uno spettro di situazioni più sfumate, dove prevale più la componente eccitatoria, o maniacale, e si affida la fase depressiva ad altri trattamenti [più specifici? Che passano per una regolazione dei mediatori, vecchi, nuovi, selettivi e misti?].
6- Le osservazioni formulate ai punti precedenti non sono elaborazioni filosofiche: corrispondono molto fedelmente a due dati ben solidi della letteratura (cui si rimanda):
a. l'epidemiologia dei "disturbi dell'umore" è quanto mai precaria: riflette cioè perfettamente il grado di indefinizione (di instabilità) dei problemi per i quali gli stabilizzatori sarebbero più o meno preferenzialmente indicati. Come ogni volta che i denominatori (cioè i bisogni in attesa di risposta) sono instabili, le popolazioni che ne derivano (la loro gravità, la loro evoluzione, i loro esiti) sono fortemente variabili. Le sotto-popolazioni che entrano nella sperimentazione di interventi finiscono, inevitabilmente, per essere difficilmente comparabili, e per favorire l'emergere di risposte (confrontate con placebo, o tra farmaci) fortemente variabili.
b. Le revisioni sui trattamenti stabilizzanti l'umore sottolineano tutte -e non c'è da stupirsi"che gli studi a disposizione sono largamente carenti, come disegno, dimensione del campione, durata di osservazione (che deve essere sufficientemente lunga per documentare concretamente e non con proiezioni, il ruolo di stabilizzatori-controllori di cicli che hanno a loro volta durata e caratteristiche diverse).
7- E' curioso-suggestivo il fatto che mentre tutta la letteratura concorda nel sottolineare che il farmaco di riferimento per questo ambito diagnostico-clinico è il "vecchio" litio (che si avvia ad avere una storia lunga 40 anni), i trial che confrontano gli stabilizzatori con lo standard riconosciuto sono l'eccezione assoluta, e non certo la normalità. Al di là di considerazioni etiche (che suonerebbero in questo contesto legittime, dato che, in fondo, la sperimentazione dovrebbe essere lecita, scientificamente anzitutto, solo se il "nuovo" viene confrontato con il già noto, per verificarne almeno la non-inferiorità), ci troviamo di fronte ad una situazione che ha una sua [apparente] logica: se ha cambiato-resa più soft,"altra", la diagnosi, posso immaginare di essere in un campo e di fronte a problemi diversi. Ma anche con questo allargamento di popolazioni candidate, e con il vantaggio di confrontarsi con il placebo, il giudizio della letteratura rispetto ai farmaci della Tabellarimane sostanzialmente scettico: può darsi che siano una buona soluzione: sarebbe proprio tempo, e dovere, di passare da una possibile evidenza ad una evidenza che-risponde-ai bisogni.
8- E' interessante peraltro notare "di passaggio, perché il tema non è molto trattato nella letteratura" che in uno dei pochissimi studi di farmacosorveglianza condotto su vasta scala nei servizi psichiatrici (Tabella), questi stabilizzanti l'umore in attesa (più che in ricerca attiva) di prove di efficacia, occupano uno spazio non proprio irrilevante per la frequenza con cui sono percepiti (dagli psichiatri stessi che certo non sopravvalutano questo aspetto) come cause di effetti collaterali clinicamente rilevanti.
9- Mentre si rimane in [fiduciosa] attesa che l'una o l'altra delle raccomandazioni autorevoli della letteratura citata prendano sul serio il problema, per rispettare il diritto dei pazienti non solo ad avere diagnosi sfumate, ma almeno risposte pertinenti, è inevitabile aggiungere alle raccomandazioni l' "allerta" del tutto recente che viene dal campo (certo molto più consistente, in termini epidemiologici e di mercato) degli antidepressivi. La revisione di tutta una stagione trionfante sul contributo rivoluzionario delle "nuove" o specifiche, ben differenziate per sottogruppi diagnostici, molecole che hanno segnato la cultura prescrittiva, l'immaginario collettivo, i budget della sanità pubblica e dei privati degli ultimi 10 anni (e più) porta alla conclusione (vedi ultima voce bibliografica) che, forse, un contributo parziale deve essere loro riconosciuto nel piccolo, antico, resistente sottogruppo delle depressioni maggiori. Altrimenti le differenze con il placebo non riescono proprio ad essere visibili, e a generare evidenze. Che la storia non sia solo pertinente per SSRI e simili?
10- Che cosa succede nel frattempo ai/alle pazienti? A quanto pare la domanda non suscita né ha attratto molto interesse nella letteratura.
E non si può essere certo tanto ingenui da ri-domandarsi in questa sede chi sono [stati] gli autori-protagonisti della situazione sopra descritta. La letteratura non si stanca (anzi!) di documentare che nel grande e generalizzato gioco di interessi tra produttori di farmaci, specialisti, agenzie e società scientifiche, le autorità regolatorie hanno da tempo abdicato al loro ruolo atteso di "stabilizzante dell'umore" dei mercati. O almeno si sono specializzate di assicurarne la monopolarità (per usare un termine coerente con il tema trattato qui), certo non sul polo della depressione.
Bibliografia 1. Biederman J et al. A controlled longitudinal 5-year follow-up study of children at high and low risk for panic disorder and major depression. Psychol Med 2006; 36:1141-52. 2. Dutta R et al. Suicide and other causes of mortality in bipolar disorder: a longitudinal study. Psychol Med2007; 37:839-47. 3. Sachs GS et al. Effectiveness of adjunctive antidepressant treatment for bipolar depression. New Engl J Med2007; 356:1711-22. 4. Belmaker RH. Treatment of bipolar depression. New Engl J Med 2007; 356:1771-73. 5. Benazzi F. Bipolar disorder-focus on bipolar II disorder and mixed depression. Lancet 2007; 369:935-45. 6. Belmaker RH, Agam G. Major depressive disorder. New Engl J Med 2008; 358:55-68. 7. Kirsch I et al. Initial severity and antidepressant benefits: a meta-analysis of data submitted to the Food and Drug Administration. PloS Medicine 2008; 5:0260-8. 8. Tognoni G et al. Epidemiology of appropriateness and safety of pharmacological treatments in the practice of Community Mental Health Service. Rivista Sperimentale di Freniatria 2007;CXXXI(3):125-47.