Siamo davvero tutti dottor Knock?
La sovradiagnosi, cioè la diagnosi di una malattia in un soggetto asintomatico che non avrebbe portato ad alcun disturbo durante l’intera vita del soggetto stesso, è uno dei più dirompenti fenomeni degli ultimi decenni in sanità pubblica. Può avere conseguenze drammatiche sia per il benessere della popolazione, perché capace di minare la qualità della vita di milioni di persone, sia per la sostenibilità del servizio sanitario, laddove esiste.
Le cause dell’aumento del fenomeno della sovradiagnosi vanno ricercate in molti e variegati meccanismi, sia interni alla sanità sia più generali e propri della società moderna:
• Una sorta di sindrome da controllo che si è diffusa nella popolazione (“Sto bene, ma è già tanto tempo che non faccio gli esami…”);
• la necessità di una medicina sempre più difensivistica, che tende a dover escludere ogni possibile stato morboso in qualsiasi individuo si presenti e per qualsiasi problema clinico;
• la comprensibile e lecita soddisfazione individuale del clinico nell’identificare precocemente una malattia potenzialmente letale quale un tumore maligno;
• la pressione economica dei produttori (biomedicali e farmaci, ma non solo), che promuovono l’uso dei test per vendere non solo i test stessi, ma anche più farmaci e/o presìdi a chi risulterà “positivo” a quei test;
• la creazione di pseudo-diagnosi a fini di lucro (disease-mongering);
• il conflitto d’interesse di clinici e Società scientifiche che spingono a incrementare il ricorso a determinate prestazioni;
• la disponibilità e la diffusione di esami di imaging estremamente sensibili, che portano a rilevare “incidentalmente”, durante l’esecuzione di un esame diagnostico non correlato, lesioni dette appunto incidentalomi, generalmente neoplastiche.
È difficile individuare dove esattamente si possa generare sovradiagnosi, perché questa può prodursi in ogni contatto del servizio sanitario con utenti sani. Inoltre, non sempre sono esami diagnostici moderni e sofisticati a individuare degli stati morbosi asintomatici che potrebbero non evolvere, o per i quali non c’è miglioramento della prognosi con l’anticipazione della diagnosi.
Alle volte all’origine vi è un semplice esame obiettivo, o un esame del sangue “routinario”. Ne deriva che uno dei compiti del servizio sanitario oggi è quello di governare l’uso della diagnostica, anche la più apparentemente “banale”, quando se ne prospetti l’uso su di una vasta fetta di popolazione, soprattutto se sana, ma non solo, come dimostra ad esempio l’epidemia di incidentalomi della tiroide identificati dall’ecodoppler carotideo (Steel 2005). Governare comprende anche saper individuare le occasioni ove dimori il rischio di sovradiagnosi e adottare regole per ridurre le prescrizioni inappropriate.
Ciò deve però assolutamente accompagnarsi alla consapevolezza che porre limitazioni all’accesso di alcuni esami potrebbe avere conseguenze disastrose di ritardo di diagnosi anche per i casi sintomatici.
Screening ed efficacia
Scelte basate sulle prove di efficacia, rivalutate periodicamente da agenzie internazionali, hanno portato a individuare ad oggi solo tre screening oncologici raccomandabili per la popolazione generale: cervice uterina, colon-retto e mammella (Ministero della Salute 2005). Questi tre screening sono raccomandati dalla quasi totalità delle società scientifiche e delle Agenzie governative. L’Unione Europea ne raccomanda l’implementazione in programmi organizzati secondo precisi protocolli (Council Recommendation 2003). Per i primi due non sussiste il problema della sovradiagnosi propriamente detta, in quanto lo screening permette di ridurre l’incidenza dei cancri invasivi attraverso il trattamento delle lesioni pre-invasive.
Nel caso della mammella, invece, il problema della sovradiagnosi esiste. Proprio sulla spinta della revisione del Nordic Cochrane Centre (Gotszche 2013) e di alcuni lavori che mettevano in evidenza una forte sovradiagnosi (Jorgensen 2009), sono state avviate due revisioni della letteratura, una dell’Independent UK Panel (UK Independent Panel 2012) voluta dal NHS - National Health System inglese e una di un gruppo di esperti valutatori dei programmi di screening europei (Euroscreen 2012).
Entrambe le revisioni hanno fornito dati di rapporto fra vite salvate e sovradiagnosi molto lontani da quanto riportato dal Nordic Cochrane Centre: 1 vita salvata per 4 cancri sovradiagnosticati del UK Independent Panel, e 1 per 0.5 dell’Euroscreen group. Entrambe le revisioni concludono senza incertezze che i programmi di screening devono continuare. Selezionare con rigore gli screening da proporre è il primo passo, tuttavia non sufficiente.
Bisogna infatti rispettare rigorosamente i protocolli, che ottimizzano il rapporto fra benefici di salute da una parte e dall’altra effetti collaterali, sovradiagnosi, falsi positivi, accertamenti non necessari e invasività dei trattamenti. Il mancato rispetto di anche uno solo dei criteri validati per ogni specifico screening - come p. es. intervalli più brevi, fasce di età sbagliate, eccesso di tassi di richiamo - rischia di rendere non efficace o almeno non costo-efficace uno dei tre soli screening Evidence-Based. Ciò è stato ripetutamente dimostrato dai molti confronti presentati in letteratura fra gli screening per la mammella statunitensi, più aggressivi, con intervalli più brevi e meno controllati, e quelli Europei (Smith-Bidnam 2003, Hofvind 2008).
Ogni nuova tecnologia o cambiamento di protocollo da introdurre negli screening di popolazione richiede infatti una lunga sperimentazione con grandi trial pragmatici, e deve essere sottoposto ad una valutazione di impatto epidemiologico, organizzativo, sociale ed etico sulla popolazione e sul servizio sanitario. Solo così sono stati definiti, e vengono ogni volta aggiornati e ridefiniti, i protocolli dei programmi di screening raccomandati dalle linee guida europee.
Screening ed equità
Un servizio sanitario universalistico e che abbia l’obiettivo di ridurre le diseguaglianze di salute, deve anche preoccuparsi di garantire l’accesso ai tre screening efficaci a tutti coloro che ne possono trarre beneficio. L’unico mezzo per garantire efficacemente ciò sono i programmi organizzati di screening con invito attivo della popolazione. Un invito che sia comprensibile per tutti, che esponga i possibili benefici e non nasconda i possibili effetti negativi, ma che espliciti anche che, sebbene ogni scelta sia corretta per l’individuo, il servizio sanitario “si permette” di invitare il cittadino perché è dimostrato che i benefici di quello specifico screening sono maggiori dei danni, sia per l’individuo, sia per la popolazione.
Gli screening spontanei, cioè non organizzati e non sistematici:
• aumentano le diseguaglianze di accesso (Palencia 2010; Giorgi Rossi 2012);
• non permettono un monitoraggio dei falsi positivi (possibili effetti negativi sulla salute) e dei falsi negativi (mancati benefici di salute) (Giorgi Rossi 2013);
• concentrano le risorse pubbliche su di una parte della popolazione, generalmente quella già più ricca e che fa già molti più esami di quanti siano necessari (spesso ricevendone più danni e meno benefici), mentre il resto della popolazione non viene intercettata (Palencia 2010; Giorgi Rossi 2012).
Il caso del PSA
Da alcuni anni si pone una nuova e ancora più insidiosa sfida: l’uso del PSA come test di diagnosi precoce del tumore prostatico su soggetti asintomatici. A questo riguardo, i dati attuali documentano:
• una riduzione della mortalità se il test è effettuato fra 50 e 70 anni con screening a intervallo biennale;
• nessuna riduzione di mortalità se lo screening è effettuato dopo i 70 anni;
• nessuna riduzione di mortalità se non si prosegue nel percorso diagnostico-terapeutico in caso di positività del test (biopsia, trattamento);
• che soltanto meno della metà dei soggetti risultati positivi al PSA si sottopone poi a biopsia;
• un valore altissimo di sovradiagnosi, attualmente stimata in 30 casi sovradiagnosticati per ogni decesso prevenuto.
Nel caso specifico del tumore prostatico, il problema della sovradiagnosi non è solo connesso al rapporto diagnosi/decessi evitati, ma anche alle sequele del trattamento, frequenti e molto rilevanti nella qualità di vita, specie l’incontinenza urinaria e la disfunzione erettile. Ad oggi, nessun paese, ha attivato programmi organizzati di screening e vi è generale accordo sul fatto che non debbano essere attivati, posizione peraltro adottata anche dal Ministero della Salute italiano. Nonostante ciò, in moltissimi paesi c’è un ricorso enorme a questo test, in modo totalmente disorganizzato. In Italia, ad esempio, è documentato che oltre il 60% dei maschi sopra i 50 anni e una percentuale ancora più alta sopra i 70 anni ha effettuato un PSA nei due anni precedenti.
Il caos organizzativo, la sovradiagnosi e gli esiti del sovratrattamento hanno spinto lo scopritore del test PSA Richard Ablin a dichiarare nel 2010 al New York Times «Non avrei mai potuto immaginare che la mia scoperta avrebbe portato a un disastro guidato dalla legge del profitto. La comunità medica deve confrontarsi con la realtà e interrompere l'uso inappropriato di screening PSA. Se farà questo, si risparmieranno quantità enormi di denaro e milioni di inutili e debilitanti trattamenti.” (http://www.nytimes.com/2010/03/10/opinion/10Ablin.html)
Il problema di governo clinico che si pone è quindi: come ridurre l’abisso tra le non-raccomandazioni ufficiali e l’enorme, disordinato e inefficiente ricorso al test?
Il progetto di Reggio Emilia
In questo contesto, e riprendendo iniziative di spirito analogo di altre Aziende Usl della Regione Emilia-Romagna (Bologna, Modena), le Aziende Sanitarie della provincia di Reggio Emilia hanno avviato un progetto molto lontano dalla logica di imposizione di linee guida che limitino l’utilizzo del test, forse nobili negli intenti ma rivelatesi in questi anni assolutamente inefficaci nel ridurne il ricorso inappropriato. L’obiettivo generale che ci siamo dati è invece quello di definire assieme ai clinici (urologi e medici di medicina generale) e ai rappresentanti dei cittadini un approccio che permetta al contempo di:
1. riconoscere ai clinici un ruolo attivo nella comunicazione e nel decision-making con il singolo paziente, nel rispetto delle competenze del professionista e di autonomia ed empowerment del cittadino;
2. ridurre drasticamente il numero di accertamenti inutili in quanto inefficaci sotto il profilo di salute (ad esempio sopra i 70 anni di età) ma fonte di disagio, di sofferenza e ovviamente anche di spesa;
3. offrire a chi lo vorrà l’opportunità di un test di diagnosi precoce, garantendo però che si possa intraprendere tale percorso soltanto nei casi in cui si abbiano entrambe le condizioni: a) un potenziale beneficio; b) la consapevolezza che, per le preferenze individuali della singola persona, i benefici possibili superano i possibili effetti negativi.
Conclusioni
Esistono ampie e continue dimostrazioni che i tre screening oncologici oggi attuati nel nostro paese non sono uno strumento di medicalizzazione della società, bensì un’opportunità di tutela della salute che viene offerta gratuitamente alla popolazione. Ciò non toglie che i problemi di sovradiagnosi che abbiamo ricordato in premessa siano molto rilevanti per i Servizi sanitari.
Nel caso dei numerosi pseudo-screening non organizzati – fra i quali abbiamo ricordato solo il PSA tralasciando ad es. gli esami morfologici e funzionali della tiroide e l’eco-color-doppler carotideo – non sussistono ad oggi le dimostrazioni di efficacia né di costo-beneficio per intraprenderne l’offerta attiva organizzata. Tuttavia, il modo migliore per limitare il ricorso ad un esame di screening inappropriato (e quindi inefficace, iniquo, costoso e talora dannoso) consiste a nostro avviso non nel rieditare linee guida o ribadire veti amministrativi, ma nel condividere con i clinici e con i cittadini percorsi e obiettivi che riconoscano a ciascuno il ruolo di co-protagonista, in uno scenario di informazioni veritiere e di tensione comune all’oculato utilizzo delle risorse pubbliche.
Potremmo insomma dire che, per vincere la logica del dott. Knock, le condanne ideologiche sono totalmente inefficaci, quindi “inappropriate”. Meglio provarci lavorando insieme.
Bibliografia essenziale
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Data di Redazione 08/2014
Sotto questo titolo ricomprendiamo due contributi (Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar cercasse e Screening dei tumori tra sovradiagnosi e prevenzione) che apparentemente (se avrete la voglia-curiosità-attenzione di leggerli entrambi) non potrebbero essere più diversi:
• per competenze, ruoli, pratiche degli autori: da una parte un osservatore-critico tra i più acuti ed indipendenti sui temi della salute pubblica e del suo ruolo nella società; dell'altra dei professionisti-specialisti in settori specifici della pratica clinica;
• per approccio al problema che si discute;
• per le posizioni che prendono, e che potrebbero tentare ad un giudizio su chi ha ragione e chi a torto.
La proposta è quella di non "cadere nella tentazione". Di prendere l'occasione di un confronto – indiretto, informale – per esercitarsi a non essere appassionati di certezze e risposte lineari, ma ad avere-ascoltare-utilizzare punti di vista e linguaggi diversi: in vista di una maggiore autonomia, e di una più grande curiosità. Buona lettura!