Se la prima parte dell'articolo tentava di rispondere alla domanda, non retorica, ma ripresa dalla recente letteratura specialistica del settore1: la demenza di Alzheimer è una malattia?, questa seconda parte, come anticipato nell'introduzione, si pone come obiettivo la risposta ad altre tre semplici domande: la malattia di Alzheimer può essere prevenuta? La malattia di Alzheimer può essere curata? Il trattamento della malattia di Alzheimer deve essere stadio-specifico?
La malattia di Alzheimer può essere prevenuta?
La domanda viene qui riportata più per completezza che per utilità pratica. La prevenzione rappresenta l'area potenzialmente più avanzata, carica di promesse e di interesse per i ricercatori, tutta tesa all'identificazione dei soggetti ad alto rischio di malattia e di possibili trattamenti capaci di interferire con la cascata patogenetica che, dalla mutazione della proteina precursore dell'amiloide e fosforilazione della tau-proteina, porta alla deposizione di placche senili e gomitoli neurofibrillari. E' un settore di ricerca imperativo, ma attualmente poco rilevante nella terapia e assistenza dei pazienti.
La malattia di Alzheimer può essere curata?
Curare presuppone che soggetti sintomatici presentino un sufficiente miglioramento dei sintomi tale da ripristinare normali livelli di funzionamento. I processi degenerativi responsabili della morte neuronale non sono reversibili e l'attuale livello di conoscenze non permette di prevedere, nel futuro prossimo, trattamenti in grado di antagonizzare tali processi. Se curare, invece, significa rendere i pazienti asintomatici il più a lungo possibile, anche fino alla morte, è allora ragionevole ipotizzare che pazienti diagnosticati in fase precoce e lieve di malattia possano essere trattati con farmaci in grado di produrre un controllo significativo dei sintomi.
Il trattamento della malattia di Alzheimer deve essere stadio-specifico?
Rispetto al decorso la malattia di Alzheimer è tradizionalmente divisa in tre fasi: lieve, moderata, grave. Il razionale delle nuove terapie oggi proposte per la malattia di Alzheimer è quello di prolungare il periodo della massima autonomia possibile del paziente riducendo al minimo il periodo di dipendenza e disabilità. Il prolungamento dell'ultima fase di malattia è un obiettivo non desiderabile per una patologia così grave e drammatica.
L'ovvia validità di questa affermazione, ampiamente riportata in letteratura, presuppone, parlando di trattamento della malattia di Alzheimer, la definizione di sicuri outcome e di adeguati end-point.
Eventi certi come la morte non sono utilizzabili e il ritardo o la mancata istituzionalizzazione risentono di troppe variabili socio-demografiche quali l'assenza, la scarsa disponibilità o l'alto costo di posti-letto (più o meno dedicati) in alcune aree geografiche italiane.
Il mantenimento della propria autonomia e/o il ritardo di ingresso nella fase di dipendenza è il vero obiettivo di qualsiasi trattamento della malattia. Se ciò è vero per tutte le patologie croniche e progressivamente invalidanti, nel caso della malattia di Alzheimer acquista significati e valenze particolari. Il presentarsi, variamente combinato, di deficit cognitivi, disturbi del comportamento, depressione, deficit sensoriali, preoccupazione o stress dei familiari, rendono molto problematica la definizione e la quantificazione di una "soglia" di autonomia-dipendenza valida e validata su popolazioni di pazienti. Le varie scale proposte, alcune esemplificate nella Tabella 1, esplicitano il tentativo di misurare/semplificare l'ampia variabilità delle situazioni cliniche ed assistenziali quotidianamente proposte dai pazienti affetti da demenza.
Come stabilire l'efficacia di un farmaco nel trattamento della malattia di Alzheimer?
Un passo in avanti, pur fortemente limitativo del concetto di cura, è certamente stato quello di definire per quali sintomi e per quali aree è atteso un miglioramento e quale effetto è clinicamente significativo (Tabella 1). In precedenza, farmaci cerebroattivi, o per la memoria, o nootropi erano accettati o esclusi in base a molto più labili e discutibili criteri di efficacia.
Per tutto ciò che della malattia si è detto appare utile circoscrivere questa presentazione al trattamento farmacologico del deficit cognitivo, area nella quale si sono registrate alcune importanti novità, precisando subito la frequente necessità ed urgenza, per il clinico, di dover intervenire su/trattare sintomi cosiddetti "non cognitivi" (irrequietezza, deliri, allucinazioni, disturbi del comportamento, insonnia, umore depresso ecc). Basti pensare al controverso e difficile, spesso inevitabile, impiego di neurolettici e antipsicotici in pazienti affetti da malattia di Alzheimer.
Il trattamento farmacologico del deficit cognitivo nella malattia di Alzheimer
Much of the treatment research and development for Alzheimer's disease (AD) in recent years has been based on the cholinergic hypothesis. Cholinesterase inhibition has been shown to improve the symptoms of mild to moderate AD. Two cholinesterase inhibitors (CIs) are now available and two more may be available shortly. Free radical inhibitors, estrogen, and anti-inflammatory drugs may also delay the onset and slow progression of AD. Combination therapies employing CIs and these other drugs may prove successful in the future2.
La citazione riportata nel riquadro sintetizza in modo autorevole ciò che oggi è possibile affermare riguardo la terapia farmacologia della malattia di Alzheimer. La grande attenzione all'ipotesi colinergica della malattia ha permesso lo sviluppo di nuovi farmaci, in particolare gli inibitori dell'acetilcolinesterasi, che si sono dimostrati efficaci nel migliorare i sintomi delle forme lievi e moderate di demenza di Alzheimer. Due di questi (donepezil e rivastigmina) sono già disponibili anche in Italia ed altri lo saranno tra breve.
Anche gli inibitori dei radicali liberi, gli estrogeni e i farmaci antinfiammatori si sono dimostrati capaci di ritardare l'esordio e rallentare la progressione della demenza. Gli autori ipotizzano che terapie combinate di anticolinesterasici ed altri farmaci potranno essere testate con successo nel prossimo futuro. La Tabella 2 propone un elenco abbastanza completo dei farmaci proposti ed è sufficientemente indicativa del grande interesse che la ricerca e l'industria farmaceutica ripongono nel settore delle demenze.
La nostra attenzione, per ovvie ragioni di spazio, si limita ai due anticolinesterasici citati, già commercializzati in Italia a totale carico del cittadino, gravati da un costo elevato e dose-dipendente (Tabella 3).
Per illustrare e discutere alcuni degli aspetti relativi alla efficacia e tollerabilità dei due farmaci sono stati selezionati tre studi clinici di particolare rilievo3-5 di cui si riportano, in modo parziale, alcuni risultati, rimandando il lettore al testo originale per qualsiasi approfondimento.
Non sfugge la correttezza metodologica dei tre studi citati, tutti controllati con placebo, in doppio cieco, multicentrici, con randomizzazione dei pazienti in tre bracci (placebo, farmaco a basse o alte dosi). Il disegno dello studio è sempre dettagliato, sufficientemente esplicitati i criteri di inclusione/esclusione dei pazienti, dichiarati i criteri di valutazione dell'efficacia in base a quanto stabilito dalla FDA: miglioramento rilevato con uno strumento cognitivo basato sulla performance e dimostrazione della significatività clinica del miglioramento. Si conferma come la scelta e l'utilizzo delle stesse scale di valutazione consenta la non facile comprensione e confrontabilità dei risultati (Tabella 1). Rigorosa la valutazione statistica condotta sia con il classico intention to treat (ITT, tutti i pazienti randomizzati) che con il last-observation-carried-forward (LOCF, pazienti randomizzati con almeno una valutazione durante la terapia in studio) e con l'analisi dei casi osservati (OC, pazienti randomizzati con almeno una valutazione in corso di trattamento ai tempi prefissati).
LaTabella 4 introduce i tre studi selezionati presentando la numerosità delle popolazioni esaminate, l'ampio range di età dei soggetti inclusi, il punteggio medio al MMSE e le percentuali dei pazienti che hanno completato lo studio complementari a quelle dei pazienti che lo hanno sospeso per la comparsa di effetti indesiderati. Le dosi più alte, soprattutto per la rivastigmina, si associano ad una percentuale significativa di sospensioni del trattamento per la presenza di effetti indesiderati che raggiunge o supera il 25%.
Per le valutazioni di efficacia il lettore deve necessariamente riferirsi ai lavori originali dato che l'uso di 4 o 5 scale di valutazione (per i vari domini esplorati) e fino a tre livelli di analisi statistica (ITT, LOCF e OC) producono un numero elevato di tabelle, piuttosto complesse. Si è scelto pertanto di riassumere solo pochi dati esemplificativi dei numerosi risultati prodotti, utilizzando l'analisi più conservativa (intention-to-treat). La Tabella 5 presenta i dati per solo due delle differenti scale utilizzate: una ADAS-Cog) per la valutazione delle funzioni cognitive, l'altra (CIBIC plus), clinica, per una valutazione globale. Per l'interpretazione delle scale e il significato dei punteggi si rimanda alla Tabella 1.
Chi non è esperto o non ha dimestichezza con questo tipo di valutazioni troverà non poche difficoltà nella lettura. In assenza di outcome clinici, ADAS-Cog, CIBIC plus e altro sono gli unici strumenti di valutazione, indicatori surrogati di una realtà clinico-assistenziale di forte impatto sull'ambiente e le persone vicine al paziente affetto da demenza.
In tutti e tre gli studi considerati, le differenze medie farmaco-placebo all'ADAS-Cog (Tabella 5), pur raggiungendo la significatività statistica, sono inferiori a 4 che viene considerato il livello minimo di significatività clinica (Tabella 1). Solo in uno studio4, dosi elevate di rivastigmina determinano la differenza più alta (4,94 punti all'ADAS-Cog) tra il farmaco e il placebo, mai ottenuta con un trattamento per la demenza, ma il dato si ricava dall'analisi dei soli casi osservati che, per il braccio considerato, erano ridotti al 65% per l'elevato tasso di sospensione del trattamento (82 pazienti su 231). Rimane il dato, anche nell'analisi più conservativa, di una maggiore percentuale di pazienti trattati che all'endpoint registrano una variazione all'ADAS-Cog >o = 4 (Tabella 5): rispettivamente 53,5% con donepezil 10 mg, 37,8% con donepezil 5 mg contro 26,8% con placebo; 24% con rivastigmina 6-12 mg, 15% con rivastigmina 1-4 mg contro 16% con placebo5. Le cifre, comunque, indicano che una piccola o modesta percentuale di soggetti effettivamente beneficia del trattamento. Analogo riscontro possiamo verificare analizzando le variazioni di punteggio alla CIBIC plus (Tabella 5) dove le differenze medie farmaco-placebo, sempre rigorosamente significative, sono inferiori allo 0,5 ed un miglioramento clinico è, invece, indicato dalla riduzione di almeno un punto (Tabella 1).
Come già anticipato i tre studi, facilmente reperibili, riportano altri dati per le altre scale di valutazione utilizzate, o, per le stesse scale qui esaminate, con analisi meno conservative. Alla solidità del disegno di studio e all'analisi statistica dei risultati seguono considerazioni, valutazioni, generalizzazioni e conclusioni "cliniche", riprese anche in alcuni editoriali, che appaiono fin troppo "ottimistiche". Riportiamo di seguito le conclusioni tratte dai tre studi esaminati lasciando al lettore ogni giudizio.
Rogers SL et al, 1998:
I risultati di questo studio dimostrano che il donepezil migliora sia le funzioni cognitive che quelle globali in pazienti con demenza di Alzheimer lieve o moderata. E' ben tollerato con pochi pazienti che presentano effetti indesiderati significativi. Il donepezil sembra avere una sostanziale utilità nel trattamento di pazienti nelle fasi lievi e moderate della malattia. Il miglioramento alla CDR nei pazienti trattati è indicativo della possibilità che il donepezil possa anche influenzare positivamente le attività funzionali della vita quotidiana. Ulteriori studi sono necessari per stabilire se il donepezil può ritardare la progressione della malattia o migliorare gli outcome funzionali dei pazienti con demenza di Alzheimer. Un farmaco che preservi le attività funzionali della vita quotidiana può essere di aiuto ritardando il carico assistenziale per i familiari ed i servizi di assistenza e, posticipando l'eventuale istituzionalizzazione del paziente, potrebbe ridurre i costi assistenziali per questa fascia di popolazione in rapido incremento.
Corey-Bloom J et al, 1998:
In conclusione, ENA 713 è un trattamento efficace, ben tollerato e sicuro che determina effetti vantaggiosi dal punto di vista cognitivo e del funzionamento globale e migliora la qualità della vita dei pazienti. Tale beneficio è evidente sia ai medici che ai caregiver. I risultati preliminari di un altro studio clinico internazionale con ENA 713 di fase III5, hanno confermato quanto riportato nel presente studio.
Rosler M et al, 1999:
Questo studio dimostra chiaramente che la rivastigmina è efficace nel trattamento di pazienti con malattia di Alzheimer probabile e determina benefici clinici in una significativa percentuale di pazienti nei tre domini esaminati. I miglioramenti erano ancora evidenti alla fine dei 6 mesi di studio, anche se ulteriori dati sono richiesti per determinare la persistenza dei risultati. Gli effetti indesiderati sono generalmente lievi o moderati e si manifestano all'inizio del trattamento. Il positivo outcome di questo studio è rilevabile nonostante la variabilità nelle diverse pratiche cliniche tra Paesi e le difficoltà presentate da differenze nella lingua e nella cultura. I risultati sono qualitativamente simili a quelli di un analogo studio condotto negli Stati Uniti4 e aggiunge altre prove che dimostrano come la rivastigmina offra benefici clinicamente significativi ai pazienti con malattia di Alzheimer.
Alzheimer: problema sociale e della famiglia
Tutti i limiti, già avanzati, della scissione tra fase iniziale-diagnostica e fase tardiva-assistenziale emergono nel momento del passaggio tra le due fasi. Dalla quasi certezza della diagnosi, attraverso la quasi probabile efficacia dei farmaci arriviamo al drammatico ed incerto campo dell'assistenza.
Sono quasi 500mila le famiglie (2,4% delle famiglie italiane) toccate dal dramma dell' Alzheimer, la malattia che "ruba la mente", e restano sostanzialmente abbandonate, dimenticate nel loro particolare stato di bisogno. Il quadro emerso dall'indagine del CENSIS conferma in primo luogo il carattere familiare della malattia di Alzheimer, e ciò in un duplice senso:
perché è risultato totale il coinvolgimento della famiglia nella cura, nell'assistenza, nel sostegno psicologico e nella tutela del proprio congiunto, che la progressione della malattia rende non solo sempre più dipendente, ma anche sempre più debole e indifeso nei confronti di un mondo esterno che ignora, o stenta a comprendere, o teme gli effetti devastanti della malattia;
a ciò si aggiunga l'estrema carenza dei servizi sanitari e socio-assistenziali di supporto ai bisogni di assistenza sempre più pressanti, che configura i tratti di una delega praticamente totale alla famiglia nel trattamento di tali malati. L'insufficienza delle risposte istituzionali accentua il peso e le richieste esercitate dalla malattia sul nucleo familiare e acuisce il processo di isolamento di una famiglia abbandonata a se stessa e, in qualche caso, ne determina un destino complessivo di impoverimento e marginalizzazione.
Tutto ciò rappresenta un aspetto preoccupante sotto il profilo sociale più generale e chiama in causa la configurazione stessa delle politiche sanitarie e socio-assistenziali del nostro Paese, che appaiono ancora scarsamente avvertite della necessità di una nuova impostazione in grado di far fronte alle trasformazioni determinate dal progressivo invecchiamento della popolazione.
Da questo punto di vista, infatti, l'Alzheimer rappresenta un caso emblematico degli effetti dell'aumento delle malattie cronico-degenerative legate all'età per quel che concerne le risorse economiche, sociali e familiari chiamate in causa e delle esigenze che, per la loro crescente diffusione e per il loro forte impatto assistenziale, determinano in termini di revisione complessiva dell'assetto stesso del sistema delle cure.
Risulta ancora fortemente sottovalutato l'impatto sociale e le conseguenze, in termini di perdita di risorse economiche e costi sociali complessivi, della scelta di "privatizzare" l'insieme degli oneri sociali e assistenziali della cura dell'Alzheimer delegandoli in così larga misura alla famiglia.
(CENSIS: Alzheimer, quale impatto sociale?)
A questa premessa, attraverso le 802 interviste condotte dal Censis tra i familiari dei pazienti, segue una importante serie di dati che tracciano in modo drammatico il quadro della situazione italiana.
Particolare attenzione viene posta alla figura del caregiver, presenza fondamentale nell'assistenza al paziente ed "invisibile" o "dimenticata" dal sistema formale di cura (il 66,7% ha dovuto lasciare il proprio lavoro (nel caso delle donne la percentuale sale al 71,7% contro il 48% degli uomini); il 10,3% ha dovuto chiedere il part-time e un ulteriore 10,3% ha dovuto cambiare attività all'interno dello stesso lavoro).
Anche le indicazioni ottenute in merito alle caratteristiche cliniche dei pazienti evidenziano alcuni punti degni di attenzione. In merito al tempo trascorso tra la fase di insorgenza dei primi sintomi e la diagnosi di Alzheimer, la media del campione fa riferimento a circa 30 mesi con 38,3% di casi diagnosticati entro un anno dall'insorgenza dei primi sintomi (concentrati, come è prevedibile, nelle classi di età più giovanili, dove l'insorgenza dei primi sintomi della malattia desta comunque più allarme che in un soggetto di età più avanzata) e 38,8% di casi diagnosticati dai 2 ai 6 anni e oltre.
Per quanto riguarda il carico assistenziale, i familiari dei malati di Alzheimer dedicano mediamente 7 ore al giorno all'assistenza diretta del paziente e quasi 11 ore alla sua sorveglianza. Il grado di avanzamento della malattia ha, come è naturale aspettarsi, una relazione diretta con l'impegno richiesto al caregiver: il 30,6% dei familiari di pazienti con una demenza grave è impegnato più di 10 ore al giorno nell'assistenza diretta e il 31,7% oltre 15 ore nella sorveglianza. All'interno di questa tendenza generale e dominante, il ricorso a un aiuto appare più consistente per alcune funzioni specifiche: per la compagnia e la sorveglianza fuori di casa (riceve aiuto, rispettivamente, il 36,5% e il 36,3% dei rispondenti) e per l'igiene del malato (si fa aiutare il 45,9% dei caregiver). Inoltre, i caregiver che ricevono una qualche forma di aiuto (l'81,8% degli intervistati) lo ottengono principalmente da altri familiari (nel 58,9% dei casi) anche se un cospicuo 37,3% è invece costretto a fare ricorso in misura prevalente a personale pagato.
Nel rapporto con i servizi il primo dato è quello relativo alle forme di sostegno economico: il 34,1% dei pazienti percepisce l'indennità di accompagnamento, una quota che si riduce al 22,6% fra i residenti al Sud, e che arriva a un massimo del 67,7% fra i pazienti più gravi. Sotto il profilo dell'accesso e dell'utilizzo dei servizi, nel loro insieme, i dati descrivono un quadro dell'assistenza al malato di Alzheimer deludente e persino preoccupante. Pochissimi sono gli utenti che frequentano un centro diurno, il 7,6%, con una punta minima dell' 1,4% fra i residenti al Sud, e per la maggioranza di coloro che ne usufruiscono (63,8%) si tratta di un servizio privato a pagamento con un costo medio mensilepiuttosto elevato (oltre 600.000 lire).I pazienti che hanno ottenuto un servizio di assistenza domiciliare integrata sono ancora meno (appena il 6,1% dei soggetti), anche se in questo caso il numero di fruitori aumenta fra i familiari dei pazienti più gravi (16,1%). Il servizio, poi, appare ancora di portata ridotta: in media 7,4 ore settimanali distribuite nell'arco di circa 4 giorni.
Anche il ricovero in strutture sanitarie e/o assistenziali risulta un fenomeno molto limitato. Si tratta, essenzialmente, di ricoveri in strutture a carattere sanitario a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale, vale a dire ospedali, cui si è rivolto, nell'arco dell'ultimo anno, il 19,8% dei pazienti, soprattutto i più gravi, fra i quali la frequenza dei ricoveri sale al 30,8%, per un totale, in media, di circa 19/20 giorni di degenza. La motivazione del ricovero è legata principalmente alle patologie associate (37,8% dei casi) o all'espletamento di procedure diagnostiche nella fase iniziale di comparsa dei sintomi (18,6%).
Il ricovero in strutture socio-assistenziali (case di riposo), siano esse a pagamento, gratuite o parzialmente convenzionate, costituisce un fenomeno quantitativamente irrilevante. In questi casi, seppure limitati (si tratta di un totale di 22 casi), alla base del ricovero ci sono, invece, prevalentemente le esigenze di sollievo temporaneo della famiglia dai compiti di assistenza (nel 63,6% dei casi) o i disturbi comportamentali del paziente che pongono al caregiver e alla sua famiglia grossi problemi (22,7%). Per queste ragioni i periodi di degenza in queste strutture sono più lunghi che nel caso dell'ospedale e, nel corso dell'ultimo anno, sono stati in media di quasi 54 giorni.
A fronte di un ricorso ai ricoveri decisamente limitato, la totalità dei pazienti ha usufruito, nel corso dell'ultimo anno, di prestazioni sanitarie: assistenza medica nell'88,8% dei casi, farmaci (84%), esami di laboratorio (61%). Per quanto riguarda invece i servizi di natura 'non sanitaria', complessivamente oltre il 30% degli intervistati utilizza collaboratrici familiari a pagamento e il 13,8% ha ricevuto assistenza da personale sociale (assistenza domiciliare o intervento dell'assistente sociale).
Speculare alle tante carenze evidenziate, l'indagine CENSIS conclude con un elenco di servizi e prestazioni capaci di fornire sostegno al paziente e alla sua famiglia così indicate in ordine di preferenza:
disponibilità di farmaci (36,2%);
centri medici specifici per la malattia di Alzheimer e centri diurni (30,7%);
assistenza con l'intervento di collaboratori familiari (25,8%);
assistenza domiciliare sanitaria (22,1%)
aiuto sottoforma di contributi economici o sgravi fiscali (17,4%)
La "preferenza" espressa per i "farmaci", dopo una lunga serie di dati su carenze culturali e socio-assistenziali, ci riporta nel cuore della nostra presentazione. La farmaco-centralità (nelle aspettative e nella realtà) per la cura della malattia di Alzheimer è quanto abbiamo cercato di discutere nelle due parti del presente articolo.
Il documento elaborato dalla Commissione Unica del Farmaco sulle possibilità assistenziali ai malati di Alzheimer (riunione del 27 e 28 Aprile 1999) interviene in modo specifico su questo aspetto con la preoccupazione di conciliare le esigenze dell'assistenza e della solidarietà con quelle dell'uso oculato delle risorse pubbliche. Il tema della rimborsabilità o meno dei farmaci (in particolare i nuovi anticolinesterasici) gravati da un rapporto benefici (modesti e transitori)/costo (elevato) sfavorevole è in questo senso emblematico.
L'invito è quello di ricollocare il problema della terapia farmacologica e della eventuale rimborsabilità dei farmaci all'interno del quadro epidemiologico e sociale più complessivo delle demenze e delle patologie croniche invalidanti.
Bibliografia essenziale 1. Cummings JL et al Alzheimer's disease. Etiologies, pathophysiology, cognitive reserve, and treatment opportunities. Neurology 1998; 51(Suppl 1):S2-S17. 2. Farlow MR, Evans RM Pharmacologic treatment of cognition in Alzheimer's dementia. Neurology 1998;51 (1 Suppl 1):S36-44; discussion S65-7. 3. Rogers SL, Farlow MR, Doody RS, Mohs R, Friedoff LT, and the Donepezil Study Group A 24-week, double-blind, placebo-controlled trial of donepezil in patients with Alzheimer's disease. Neurology 1998; 50:136-145. 4. Corey-Bloom J, Anand R and Veach J for the ENA 713 B352 Study Group. A randomized trial evaluating the efficacy and safety of ENA 713 (rivastigmine tartrate), a new acetylcholinesterase inhibitor, in patients with mild to moderately severe Alzheimer's disease. Int J Ger Psychopharmacol 1998; 1:55-65. 5. Rosler M et al. Efficacy and safety of rivastigmine in patients with Alzheimer's disease: international randomised controlled trial. BMJ 1999; 318:633-40. 6. Alzheimer: problema sociale e della famiglia. Documento Cuf del 27-28 Aprile 1999 e Indagine Censis sull'impatto della patologia nel tessuto sociale. Il Sole 24ore 11-17 Maggio 1999.