*La collocazione di questo testo in un'atmosfera estiva, fatta di caldo e vacanze, suona certo un po' strana in questo tempo invernale. Essendo responsabili del ritardo, abbiamo pensato che il contenuto era proprio per tutte le stagioni, e ritocchi nello stile e nell'atmosfera dello scritto potevano solo guastare.
Tempo di vacanze: invecchiando c’è più che mai bisogno di staccarsi non solo fisicamente dai luoghi di lavoro, ma anche mentalmente dai pensieri che riguardano la professione. O almeno è ciò che succede a me, e questa breve nota, scritta a ridosso dell’estate, è coerente con quel principio. Il lettore che non ha tempo per divagazioni e vuole leggere qualcosa di utile alla professione, non si perderà niente voltando pagina.
C’è stato un tempo in cui ero solito andare in ferie con un borsone pieno di riviste, New England, Lancet, BMJ... dopo aver messo da parte i numeri con articoli che mi sembravano importanti e non ero riuscito a leggere prima. E mi portavo almeno un documento di linee guida, non tanto per le raccomandazioni pratiche, ma soprattutto per ristudiarmi in modo completo e “da zero” qualche argomento rilevante. Ricordo quelle americane sull’asma bronchiale, che mi erano piaciute molto, e poi un ponderoso volume con quelle sull’obesità, in cui non riuscii invece a trovare un solo concetto di concreta utilità, salvo “se non si riesce a far dimagrire un obeso, l’obiettivo è di non farlo aumentare di peso”, cosa che poi negli anni ho sempre cercato di ricordare. Concetto interessante, perché mi era sembrata la prima esplicita ammissione di non onnipotenza che leggevo. In tutti gli altri casi le linee guida sulle singole patologie mi sembravano fermarsi prima del punto in cui obiettivamente non c’è proprio più niente da fare, quindi senza individuarne e specificarne le condizioni, e dando l’impressione che ci sia sempre un’altra possibilità.
Ma sto parlando di decenni fa. Negli ultimi anni mi sono convinto che riposarsi è non solo giusto, ma anche obbligatorio (“non fidatevi dei medici che non prendono abbastanza ferie”, dico sempre ai miei pazienti verso metà luglio), e per farlo è meglio chiudere del tutto il sipario sulla solita scena. Impresa che però mi risulta alla fine piuttosto difficile, perché se è vero che noi medici siamo spesso solo delle comparse nella vita dei pazienti, è anche vero che loro sono invece protagonisti della nostra. Persino da morti: me ne sono reso conto passando davanti alle lapidi in cui, accanto all’effige, sono riportate (credo saggiamente) solo la data di nascita e quella della morte. Nelle tombe più vecchie, quelle di almeno 70-80 anni fa, si leggono invece, accanto ad eventuali titoli accademici ed onorifici, spesso anche brevi epitaffi, in cui ricorrono parole quali “esemplare”, “illustre”, “devoto”, e poi “virtù”, onestà”, o perfino “fiero morbo”, magari nel caso di bambini morti in tenera età. Frammenti ed epiloghi di storie perdute, che oramai nessuno può più ricordare.
E siccome di miei ex-pazienti in quel luogo ce ne sono oramai un bel po’, in una piccola città come la mia è facile imbattersi nei ritratti di parecchi di loro. Mi sono così reso conto che a volte ricordo tanti dettagli della loro personalità, della loro storia clinica (almeno per come l’ho vista io) e soprattutto dell’evento terminale.
La signora Dea, morta a 97 anni sotto una macchina proprio mentre andava al cimitero, e sepolta a fianco del marito, anche lui mio assistito per mezza vita, di cui ricordo l’ansia che lo perseguitava costantemente (da quando aveva avuto il tetano a 24 anni, diceva lui, perché i pazienti debbono sempre costruire un senso di ciò che accade). E poi la signora Anna, vissuta brevemente col suo tumore in un’epoca in cui non esistevano le terapie di oggi, poco lontano da Lucia, vissuta invece quasi 10 anni dopo le prime metastasi della medesima malattia e deceduta un anno e mezzo fa. Marco, il mio primo paziente morto di AIDS a 39 anni; Maurizio, mio vecchio amico d’infanzia, morto improvvisamente a 40 anni; Antonello, suicida dopo una terribile storia famigliare, e tanti ancora.
Al contrario, di altri non ricordo quasi nulla, o per lo meno il ricordo è assai incerto e confuso: non sono sempre sicuro di non mescolare storie di pazienti diversi con qualche tratto simile. In qualche caso sono andato a ricercarne le cartelle cliniche, tutt’ora registrate sul mio database, per la curiosità di riallacciare ricordi, di ricostruire pezzi di storie che sono le loro ma anche un po’, anzi, parecchio, le mie, dal punto di vista umano e professionale. E così ho trovato quasi sempre qualche dato concreto, ma che fa uno strano effetto rispetto ai ricordi evocati nell’altro contesto. Nelle mie cartelle, c’è di solito una lista dei problemi, in cui magari si legge: “2/1988: carcinoma mammario destro, 4 linfonodi ascellari postivi”, poi “3/1988: mastectomia + terapia con CMF”, e infine “9/1990: metastasi ossee”. Poi più nulla, salvo le terapie, annotate nell’apposita scheda, con sfilze di antiemetici, analgesici, morfina, integratori alimentari, assieme a diari con elenchi di sintomi e poche altre annotazioni. Quasi una parafrasi sulla banalità della clinica, quando la si rapporta agli eventi numerosi della vita, o anche solo a quelli relativi alla salute. Certo, un conto è la vita delle persone ed un conto la loro storia clinica come è stata vista e annotata per sommi capi da un medico: non si può mica fare una biografia nelle cartelle cliniche.
Sugli ultimi mesi spesso mancano dati, perché i pazienti più gravi vengono da un certo momento in poi visitati a domicilio, e le cartelle cliniche sul PC in studio finiscono per non essere più aggiornate. Di pazienti deceduti improvvisamente, o quantomeno in modo inatteso, ci sono dati che risalgono spesso a molto tempo prima dell’evento finale. Di Antonello, quello morto suicida, ci sono solo tracce di terapia con antidepressivi ed ansiolitici, e un diario di poche righe che riassume quasi scolasticamente i sintomi di una depressione maggiore (probabilmente quello che era rimasto buttando via tante altre cose, pur viste, sapute o riferite, ma non finalizzabili alla costrizione in una diagnosi e quindi alla terapia di spettanza). Nella lista dei problemi, “depressione maggiore”, con tanto di “reattiva” evidenziato in grassetto, chissà perché. Ne so più io a memoria che il mio database, ma di quanti pazienti ho già perso dettagli irrecuperabili e che forse avevano un senso?
Così, a vacanze finite, mi sono ritrovato a pensare di nuovo: ma se si sottolinea sempre, da parte dei medici di medicina generale, una presunta specificità di ruolo, come non pensare ad una specificità nella raccolta – e in una annotazione formalizzata – di dati e informazioni, che in definitiva assumono anche il ruolo di criteri decisionali (non di rado soggettivi ed extra-clinici)?
E quando andrò in pensione, che fine faranno i dati che ho raccolto nelle migliaia di cartelle cliniche redatte ed aggiornate, più o meno meticolosamente, in tanti anni di attività ed in migliaia di incontri? Nel mio database ci sono più di 100.000 contatti registrati dal 1986 (con tanto di orario e durata delle visite) anche se spesso – specie quelli più datati – non corredati da un diario che permetta di ricostruirne la motivazione. Non è che pretenda di lasciare chissà quale eredità storica a chi mi subentrerà o tantomeno ad altri, ma forse è il caso di pensare anche ad un’altra questione: se, in che modo e a quali condizioni, le cartelle cliniche di milioni di pazienti, raccolte dai medici di famiglia, potrebbero essere analizzate per contribuire (almeno in piccola parte) allo sviluppo di conoscenze, e (soprattutto) alla definizione di una metodologia professionale descritta solo aneddoticamente (e peraltro in misura alquanto modesta).
Bisognava pensarci prima, ed era difficile da capire e decidere all’inizio, ma certamente i medici di medicina generale raccolgono un patrimonio enorme di informazioni soggettive, dati oggettivi e riferimenti contestuali, da cui derivano decisioni, ed infine conseguenze cliniche. Si possono annotare anche dati di carattere culturale e sociale, ad esempio istruzione e professione, che potrebbero permettere stratificazioni della popolazione assistita, ma in pochi lo fanno. Solo da poco ho iniziato ad annotare le motivazioni di qualche scelta (altrimenti a rischio di non essere più valutabile a distanza di tempo), o le richieste esplicite dei pazienti: è curioso, visto che sono tra i determinanti di maggior peso nelle decisioni.
Sta di fatto che non si è pensato affatto a come raccogliere, qualificare ed organizzare dati che abbiano un possibile utilizzo al di là del semplice promemoria per la quotidianità professionale e la sterile utilità burocratica, come si pretende per una pratica efficiente. Viviamo infatti in un’epoca in cui è di fatto privilegiata l’efficienza a tutti i livelli, perfino rispetto a valori riconosciuti come libertà e uguaglianza (che peraltro sono la stessa cosa). Per essere realizzata e valutata, l’efficienza, così come l’efficacia, richiede “big data” e mega-trials, mentre i “little data” dei medici di famiglia hanno scarso mercato anche in un puro ambito attinente alla cultura, alla formazione e alla consapevolezza di ruolo. Peccato, perché si può anche credere di sapere tutto di tutti senza capire affatto che cosa succede e perché.