Si calcola che l'incidenza della polmonite acquisita "in comunità" sia di 10-12 casi per 1000 abitanti l'anno (sesta causa di mortalità negli USA).
Nelle ultime linee guida apparse in letteratura prodotte dall'Infectious Diseases Society of America e dalla British Thoracic Society sulla gestione di questa patologia, si pone particolare attenzione all'insorgenza di resistenze verso gli antibiotici da parte dei microrganismi responsabili della polmonite (soprattutto per quanto riguarda loStreptococcus pneumoniae), all'importanza dei nuovi agenti eziologici (Mycoplasma pneumoniae, Chlamydia pneumoniae e Legionella pneumoniae), causa di quasi il 40% delle polmoniti (in certe realtà geografiche) ed infine alla individuazione di indicazioni pratiche per aiutare il medico a decidere sulla necessità del ricovero in ospedale del paziente.
Nei soggetti non ospedalizzati la mortalità è di circa 1% a fronte del 13% per i pazienti ospedalizzati anziani.
Nonostante sussista l'esigenza di una condotta diagnostica e terapeutica attenta, esistono ancora controversie sulla necessità o meno di ricorrere a determinati accertamenti diagnostici e sull'impiego di una classe di antibiotici piuttosto che di un'altra; le stesse linee guida citate forniscono indicazioni diverse su questi aspetti.
Nella maggioranza dei casi (circa il 40%) l'agente etiologico delle polmoniti acquisite in comunità è lo S.pneumoniae; nel 10% dei casi l'H. influenzae e nel 15% microrganismi atipici (Mycoplasma p., Chlamydia p. eLegionella p.). Va tuttavia sottolineato come la frequenza dei germi atipici vari nei diversi studi a causa della diversità d'area geografica in cui sono condotti, d'indagini laboratoristiche disponibili e di variazioni demografiche della popolazione, arrivando a toccare percentuali molto più alte. Uno studio Canadese su pazienti giovani senza patologie concomitanti, effettuato al di fuori dell'ospedale, ha individuato nei microrganismi atipici la causa di metà dei casi di polmonite di comunità.
Non ci sono criteri clinici che consentano di escludere in modo certo una polmonite in un paziente che presenti una sintomatologia caratteristica di un'infezione delle basse vie respiratorie (febbre, tosse, dispnea, espettorato e dolore pleurico). Reperti auscultatori diffusi o focali si associano, nella metà dei casi, ad un'alterazione radiografica. La febbre è presente nell'80% dei pazienti con polmonite, i rumori polmonari nell'80% e nel 30% segni di consolidamento. I pazienti anziani (al di sopra dei 65 anni) presentano meno sintomi rispetto ai più giovani.
Alcuni punti particolari nella gestione delle polmoniti "di comunità" sono oggetto di controversie e meritano di essere analizzati più in dettaglio. Diagnosi: clinica soltanto o radiografia del torace sempre?
Le linee guida della Infectious Diseases Society of America stabiliscono che, di fronte a sintomi che facciano sospettare una polmonite acquisita in comunità (tosse, dispnea, espettorato, febbre), la diagnosi debba essere fatta ricorrendo sempre alla radiografia del torace. Questo a causa dei costi e dei potenziali danni che una terapia antibiotica non necessaria potrebbe produrre in termini di resistenze e d'effetti indesiderati.
Di fatto, in medicina generale, la diagnosi spesso è posta sulla base dei reperti clinici. Il ricorso alla radiografia del torace è frequente qualora ai sintomi classici non corrispondano segni obiettivi chiari, oppure nei casi in cui ci si trovi di fronte a soggetti forti fumatori con episodi d'infezione respiratoria ricorrenti o il paziente per età e condizioni generali sia particolarmente a rischio. Negli altri casi la conferma radiologica del sospetto di polmonite spesso non è richiesta. Non è chiara neppure l'utilità di una radiografia di controllo a distanza. Nel giovane non fumatore che veda risolversi completamente il quadro clinico nel giro di 4-6 settimane non è probabilmente necessario ripetere la radiografia.
Trattamento empirico o ricerca dell'agente etiologico in tutti i casi?
Le linee guida differiscono nel valutare il grado di importanza e la necessità di stabilire sempre l'agente etiologico prima di intraprendere la terapia. In pratica, nella quasi totalità dei casi, i pazienti non ospedalizzati sono trattati in modo empirico, non essendo possibile, se non retrospettivamente, disporre dell'esito d'accertamenti diagnostici di tipo colturale. L'esame batterioscopico diretto non è eseguito dalla quasi totalità dei medici. Quindi anche se tali accertamenti sono considerati necessari (soprattutto nelle linee guida americane), in pratica gli elementi che guidano il trattamento empirico delle polmoniti acquisite al di fuori dell'ospedale sono esclusivamente clinici. Ricovero?
Una volta posta la diagnosi si tratta di decidere se ricoverare o no il paziente.
La maggior parte dei casi (75%) può essere trattata a domicilio in modo appropriato. I pazienti che contraggono una polmonite al di fuori dell'ospedale, soprattutto se d'età superiore a 65 anni e con patologie concomitanti (diabete, cardiopatie, pneumopatie croniche ecc.) possono andare incontro ad un rapido aggravamento. Nei pazienti a rischio è quindi indicato il ricovero, visto l'alto tasso di mortalità delle polmoniti in questi casi.
Esiste una classificazione, frutto di uno studio condotto in Nord America su 14.000 pazienti, che, valutando la presenza o meno di segni clinici e in un secondo momento l'esito di esami diagnostici, individua cinque classi di rischio in base alle quali il medico può decidere di ricoverare o meno il paziente con polmonite. I fattori considerati per classificare i pazienti al fine di definire la necessità del ricorso all'ospedalizzazione sono, secondo gli autori del lavoro citato, elencati nella Tabella 1.
Se il paziente ha meno di 50 anni e nessuna delle condizioni elencate, è assegnato alla classe I a basso rischio. Ai pazienti che non rientrano nella classe I, si assegna un punteggio che tiene conto sia delle caratteristiche clinico-anamnestiche utilizzate nella prima fase sia di dati di laboratorio e radiologici (presenza o assenza di versamento pleurico). Secondo il punteggio totale, sommato all'età in anni (meno 10 punti nelle donne), il paziente è inserito nelle fasce di rischio II, III, IV o V. Per i pazienti nella I e II fascia non sarebbe necessario il ricovero.
Frequentemente avviene il passaggio dalla I alla II classe di rischio solo per il fattore età, con la necessità di dover ricorrere ad esami che per il medico di medicina generale non sono di facile disponibilità in tempi brevi. Tuttavia per il medico pratico la stratificazione di rischio proposta può essere di aiuto nel decidere se curare a casa il paziente o se ricorrere ad un ricovero con lo scopo di eseguire accertamenti strumentali oppure se ospedalizzare direttamente per il trattamento della polmonite.
Recentemente, in uno studio condotto su pazienti che afferivano a centri ospedalieri Nord Americani, si è adottato questo sistema di valutazione di rischio per decidere se trattare in ospedale o a domicilio. I risultati hanno confermato la validità dell'approccio sia per gli esiti in termini di complicanze nei pazienti dimessi (in terapia antibiotica orale) sia per il contenimento dei costi dovuto al risparmio di ricoveri non necessari. Quale terapia?
In tutti i pazienti con diagnosi di polmonite formulata sia sulla base di reperti clinici, sia sul riscontro di alterazioni radiografiche o di esami ematochimici, deve essere instaurato prontamente (possibilmente entro 4-8 ore dall'esordio della sintomatologia) un trattamento antibiotico.
La terapia empirica deve prevedere l'utilizzo di un farmaco che abbia azione sullo S. pneumoniae, responsabile della maggior parte dei casi di polmonite.
La percentuale di resistenza alla penicillina da parte dello S. pneumoniae varia da una regione geografica all'altra. Una percentuale dal 3 al 5 % sembra essere quella presente in USA mentre percentuali più alte sono state segnalate in Spagna (20%). Spesso vi è una resistenza crociata anche verso le cefalosporine di prima e seconda generazione, o verso l'eritromicina, la claritromicina e l'azitromicina. Le cefalosporine di terza generazione hanno invece una buona azione sui ceppi resistenti alla penicillina. I chinoloni sono efficaci ma il loro uso deve essere limitato per la facile insorgenza di ceppi di S. pneumoniae resistenti.
Va sottolineato però come le linee guida messe a punto nel Regno Unito (British Thoracic Society) differiscano dalle linee guida Americane (IDSA), oltre che nell'enfasi posta sulla necessità di eseguire accertamenti per definire l'etiologia della polmonite, anche sul tipo di antibiotico da impiegare in prima battuta nella terapia empirica. Vediamo queste differenze.
a) Le raccomandazioni delle linee guida inglesi
In Inghilterra, l'amoxicillina rimane di primo impiego nel trattamento empirico, mantenendo la sua efficacia sul 96% dei ceppi di Streptococcus p. (le resistenze sono dell'ordine del 3-4%). In alternativa a questo, ad esempio in caso di pazienti allergici, è indicata l'eritromicina.
Nel paziente bronchitico cronico con episodi ricorrenti, dove si sospetti l'etiologia da Haemophilus influenzae,l'associazione amoxicillina e acido clavulanico appare vantaggiosa. Quest'ultimo patogeno è generalmente sensibile anche alle cefalosporine di terza generazione e ai fluorochinoloni, mentre risulta resistente ai macrolidi (vecchi e nuovi).
Gli agenti atipici (Legionella, Mycoplasma e Chlamydia) sono invece sensibili ai macrolidi (eritromicina, claritromicina e azitromicina) e sono pertanto indicati nel paziente senza patologie concomitanti soprattutto nei giovani adulti.
b) Le raccomandazioni delle linee guida americane
Quando l'agente etiologico non è noto, è indicato in prima battuta l'uso orale di un macrolide o di un fluorochinolone o della doxiciclina, senza particolare preferenza per uno dei tre.
In alternativa ad uno di questi è raccomandato l'uso di amoxicillina/acido cIavulanico o cefalosporine di seconda generazione (non attivi verso gli atipici). I macrolidi e i fluorochinoloni risultano attivi verso gli atipici. In caso si sospetti una polmonite da H. influenzae, tra i macrolidi è preferibile la claritromicina o l'azitromicina rispetto all'eritromicina.
Quale il ruolo dei fluorochinoloni?
I fluorochinoloni (levofloxacina, moxifloxacina) hanno spiccata attività verso i più comuni batteri responsabili delle infezioni respiratorie incluso lo Streptococcus pneumonie e gli agenti atipici. Per tale ragione sono considerati una valida alternativa alle penicilline sintetiche e alle cefalosporine di seconda e terza generazione nel trattamento delle polmoniti comunitarie e negli episodi di riacutizzazione della bronchite cronica. Come si considerava in precedenza, valutazioni di ecologia batterica e di costo inducono però a considerare l'amoxicillina come farmaco di primo impiego ricorrendo ai fluorochinoloni come alternativa, ad esempio in caso di allergia all'amoxicillina, preferibile ai macrolidi, visto il progressivo aumento delle resistenze dello S.pneumoniae e dell'H.influenzae nei confronti di questi ultimi.
Va infine ricordato come alcuni dei nuovi fluorochinoloni (grepafloxacina, trovafloxacina) siano stati ritirati dal commercio per effetti indesiderati imprevisti.
La vaccinazione
La vaccinazione contro il virus dell'influenza è raccomandata al di sopra dei 65 anni o in soggetti con patologie croniche a carico dell'apparato respiratorio o cardiocircolatorio o in pazienti diabetici. Controverso è ancora l'uso routinario del vaccino polivalente antipneumococcico. Considerazioni pratiche
Il medico di medicina generale, almeno in Italia, nel momento in cui si trova di fronte un paziente in cui sospetta, sulla base di reperti solo di tipo clinico-anamnestico, una polmonite, decide se trattare o no il paziente a domicilio in base alla gravità dei sintomi presenti, tenendo conto inoltre dell'età e delle patologie croniche associate (BPCO, cardiopatia, epatopatia, diabete). La radiografia non viene richiesta in tutti i casi (come raccomandato dalle linee guida americane); vi si ricorre sempre, tuttavia, di fronte ad un paziente con i sintomi clinici senza avere però reperti obiettivi chiari (rumori polmonari) o nei pazienti con bronchite cronica con sintomi quali febbre, dispnea e reperti polmonari per i quali risulta difficile valutare se siano di nuova insorgenza o di vecchia data. La radiografia viene sempre eseguita nei pazienti con patologie croniche concomitanti a rischio.
Quando ai sintomi classici si associno reperti polmonari tipici (rantoli crepitanti), il paziente non presenti fattori di rischio importanti, le condizioni generali non siano preoccupanti e l'età del paziente non troppo avanzata, il medico di medicina generale tratta a domicilio senza ricorrere ad ulteriori accertamenti ed in modo empirico. Generalmente la terapia differisce a seconda che sia un paziente giovane, nel qual caso la prima scelta è quasi sempre un macrolide, o un paziente più anziano, dove spesso si preferisce iniziare con amoxicillina o amoxicillina/acido clavulanico, o, se il paziente è un bronchitico cronico con frequenti episodi di riacutizzazione, con un fluorochinolone o una cefalosporina di seconda o terza generazione.
Sia per il paziente giovane che, a maggior ragione, per il paziente anziano il medico sorveglia attentamente il decorso della sintomatologia in modo da poter tempestivamente rilevare un eventuale aggravamento delle condizioni cliniche. Da alcuni anni la vaccinazione per l'influenza è largamente praticata nelle fasce di età avanzate e nei pazienti con patologie croniche. La vaccinazione antipneumococcica non è ancora entrata nell'uso routinario ma è stata eseguita su campioni di popolazione a rischio, in concomitanza con il vaccino antinfluenzale. Si attendono valutazioni più precise sulla sua efficacia prima di raccomandarla in pazienti a rischio. In conclusionesi può affermare che l'approccio del medico di medicina generale alla polmonite acquisita in comunità sia più vicino alle raccomandazioni delle linee guida inglesi, dove le decisioni sulla gestione e sul trattamento dei pazienti sono basate più sulla clinica che sul ricorso ad indagini diagnostiche strumentali. L'attenta sorveglianza del paziente trattato a domicilio rimane il punto cardine per cogliere eventuali elementi di insuccesso terapeutico o di peggioramento delle condizioni cliniche tali da indurre all'ospedalizzazione o al cambio della terapia in atto (Tabella 2).
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