Nel valutare l'importanza di un intervento sanitario occorre tenere conto sia degli effetti positivi che di quelli negativi. Degli uni e degli altri è necessario conoscere due aspetti distinti: l'entità e la probabilità di comparsa. Purtroppo, la definizione, usualmente utilizzata, di "rapporto beneficio/rischio" tende a confondere questi due aspetti. Con il termine "rischio" si indica infatti "la probabilità che un evento avverso si manifesti" e questa probabilità andrebbe più correttamente confrontata con la "probabilità di ottenere un beneficio" che però non può essere tradotta concretamente in un termine preciso. Si possono confrontare invece i "benefici" con i "danni" ed è più corretto perciò, per un determinato intervento, parlare di rapporto beneficio/danno.
Quando si sceglie un trattamento per un paziente, o quando viene commercializzato un nuovo farmaco, si ricerca un beneficio ben preciso. Per raggiungere questo obiettivo si è disposti ad accettare di esporre il paziente a un eventuale danno, però questo danno deve essere il minore possibile. Ciò significa che i benefici attesi devono superare, per natura ed entità, i possibili danni. In questo caso si può affermare che il farmaco possiede "un rapporto beneficio/danno favorevole".
Nella pratica clinica, però, la valutazione corretta di questo rapporto è uno dei compiti più difficili. Per comprendere appieno questa difficoltà occorre rispondere a tre importanti domande preliminari.
Come si può misurare il rapporto fra i benefici e i danni di un trattamento?
Sia i benefici che i danni di un trattamento possono essere definiti da un punto di vista quantitativo ricorrendo a parametri diversi: in genere si utilizzano le percentuali oppure misure più immediatamente comprensibili come il "numero di pazienti da trattare" (NNT) o, come proposto da Sackett e collaboratori, il "numero di pazienti da trattare per osservare un evento avverso (NNH)".
I problemi si presentano però quando si cerca di esprimere quantitativamente il risultato di questi due effetti opposti.
Negli studi preclinici, come indicatore della selettività del farmaco nel produrre gli effetti desiderati si può ricorrere all'indice terapeutico, ossia il rapporto fra la DL 50 (Dose Letale 50) e la DE 50 (Dose Efficace 50). Tuttavia questo indicatore, che esprime la concentrazione di farmaco richiesta per produrre un effetto tossico rispetto alla concentrazione richiesta per produrre un effetto terapeutico in una determinata popolazione, non può essere impiegato negli studi clinici. Poiché in una popolazione vi può essere una marcata variabilità farmacodinamica, anche se il farmaco ha un indice terapeutico elevato, la concentrazione di farmaco richiesta per produrre un effetto terapeutico nella maggior parte dei soggetti arruolati sarebbe inevitabilmente sufficiente a produrre effetti tossici in una parte del campione. Inoltre, un'altra complicazione alla determinazione dell'indice terapeutico nei pazienti è data dal fatto che la curva concentrazione del farmaco/percentuale di efficacia e la curva concentrazione del farmaco/percentuale di tossicità hanno andamenti diversi. Infine, nessun farmaco produce un solo effetto e, a seconda dell'effetto che viene misurato, il suo indice terapeutico può variare: ad esempio la dose di codeina necessaria per produrre un effetto antitussivo nella maggior parte dei pazienti è molto più bassa di quella necessaria per il controllo del dolore e quindi il margine di sicurezza, la selettività o l'indice terapeutico per la codeina è molto maggiore se viene usata come sedativo della tosse che come analgesico.
La definizione del rapporto beneficio/danno di un trattamento può essere pertanto solo qualitativa (ad esempio: favorevole/sfavorevole; accettabile/inaccettabile; superiore/inferiore; incerto/sconosciuto, a seconda delle circostanze). Purtroppo questi termini qualitativi sono suscettibili di interpretazione soggettiva e le eventuali controversie possono avere gravi conseguenze. Basti pensare infatti che è proprio in base alla valutazione del rapporto danno/beneficio che viene concessa l'approvazione alla commercializzazione di un farmaco o viene fatta una scelta terapeutica.
La definizione del rapporto beneficio/danno: quando e a chi spetta?
Com'è facilmente intuibile, il rapporto beneficio/danno di un trattamento può cambiare nel tempo mano a mano che si acquisiscono nuove conoscenze sulla sua efficacia e sul suo profilo di sicurezza. Questo processo è ben illustrato dal percorso che tutti i nuovi farmaci devono seguire prima di poter essere commercializzati e prescritti. Dopo il completamento degli studi tossicologici negli animali, infatti, si passa agli studi di fase 1 e 2 nei soggetti sani e quindi agli studi di fase 3 nei pazienti, nei quali, per la prima volta, si può valutare con sufficiente certezza il reale beneficio di un trattamento. Alla fine di ciascuna di queste 3 fasi deve esserci qualcuno che si assume la responsabilità di decidere se, per questo nuovo farmaco, il rapporto tra i benefici attesi e i possibili danni è accettabile o inaccettabile, consentendo (o bloccando) l'ulteriore sviluppo del nuovo trattamento. Di solito però, il vero bilancio lo si può fare solo dopo la commercializzazione del farmaco ossia solo dopo che è stato prescritto ad un numero di pazienti sufficientemente ampio per far emergere anche gli effetti indesiderati relativamente rari ma a volte gravi. Di fatto perciò la definizione del rapporto beneficio/danno è un processo senza fine, che coinvolge numerosi esperti come ricercatori, farmacologi, clinici e, soprattutto, medici e autorità sanitarie. Non sorprende quindi che soggetti così diversi esprimano del rapporto beneficio/danno una valutazione molto differente o, cosa ancora più importante, che il loro agire possa essere cosi differente. Infatti, essi non solo hanno informazioni limitate sul nuovo principio attivo ma, soprattutto, partono da prospettive diverse, almeno in parte, per formulare il loro giudizio.
Le ditte farmaceutiche, responsabili della ricerca e dello sviluppo dei nuovi farmaci, guardano ad essi dal punto di vista dell'interesse dei loro azionisti: la loro principale preoccupazione è di far arrivare il farmaco sul mercato il più presto possibile e di mantenervelo fino a quando è conveniente in termini di profitto; che vi sia una reale necessità clinica per quel farmaco conta meno rispetto alla possibilità di conquistare una "fetta" di mercato.
Il farmacologo e il clinico agiscono dalla prospettiva della ricerca accademica: vogliono contribuire alla conoscenza sul nuovo farmaco non solo per scoprire se è "almeno altrettanto efficace e sicuro" rispetto a farmaci simili ma anche perché la loro ricerca clinica diventa un tramite importante per raccogliere fondi per il loro dipartimento. (Vale la pena di leggere due articoli pubblicati recentemente sul New England Journal of Medicine1,2 che affrontano il problema dei rapporti fra la ricerca accademica e l'industria farmaceutica).
I medici guardano al nuovo farmaco per vedere se rappresenta un miglioramento rispetto a farmaci più vecchi dal punto di vista dei bisogni dei loro pazienti. Spesso tuttavia i medici non tengono in considerazione la limitatezza della loro esperienza personale e raramente si preoccupano dell'opinione del paziente il quale potrebbe attribuire agli eventuali benefici o ai danni di un trattamento un peso diverso da quello del medico. La scelta fra due rischi, quello di subire un danno per la comparsa di un effetto indesiderato e quello legato al mancato trattamento di una malattia o all'impiego di un trattamento alternativo, non è semplice e implica un'attenta valutazione dell'importanza che ciascun paziente attribuisce all'una o all'altra opzione.
Le autorità regolatorie, dal loro punto di vista, agiscono a salvaguardia della salute pubblica. L'assunzione di appropriati interventi per monitorare il rapporto beneficio/danno di tutti i farmaci, sia nuovi che vecchi, è una loro precisa responsabilità. Una delle difficoltà che devono affrontare, però, è decidere quali e quanti sospetti su di un farmaco giustifichino la divulgazione di una informazione pubblica o un provvedimento di ritiro del farmaco stesso.
Quali fattori possono influenzare la definizione di danno e di beneficio?
Per comprendere appieno la complessità del problema, occorre ricordare che altri fattori, oltre a quelli già menzionati, giocano un ruolo cruciale nella definizione dell'effettivo rapporto beneficio/danno di un intervento. Infatti, devono essere attentamente valutati molti aspetti come la malattia su cui il farmaco agisce e la disponibilità di trattamenti alternativi, il tipo di pazienti a cui il farmaco viene prescritto e il suo uso corretto.
È ovvio che si può tollerare un effetto indesiderato grave solo se il farmaco che ne è la causa viene assunto per trattare una malattia potenzialmente grave per la quale non esistono alternative terapeutiche ugualmente efficaci (i farmaci antineoplastici sono un esempio classico). Lo stesso rischio o un rischio anche inferiore, tuttavia, non può essere accettato per un farmaco "copia" di altri farmaci (me-too), dal quale è improbabile ci si possa aspettare alcun reale vantaggio per il paziente, essendo disponibili per la prescrizione altri principi attivi alternativi meglio conosciuti (vanno rammentati a questo proposito i molti antiinfiammatori non steroidei ritirati dal commercio per la loro tossicità).
Per stabilire correttamente il rapporto beneficio/danno di un farmaco è poi altrettanto importante l'attenta valutazione del tipo di pazienti a cui prescriverlo. La comparsa di una reazione avversa infatti è fortemente influenzata da alcune caratteristiche dei pazienti (in particolare la diminuita funzionalità di vari apparati o la diminuita efficacia dei meccanismi di difesa), che possono modificare la farmacocinetica o la farmacodinamica del farmaco prescritto. Il paziente anziano è un esempio paradigmatico della possibile variabilità interindividuale del rapporto beneficio/danno. La valutazione attenta di tutte queste variabili è essenziale per prevenire danni che sono per larga parte prevedibili.
Molto importante è, inoltre, evitare gli "errori terapeutici". Si parla di errore terapeutico in caso di insuccesso del trattamento farmacologico che comporti un danno diretto o indiretto al paziente. Dati recenti pubblicati nella letteratura internazionale indicano che fino al 4% dei pazienti ricoverati in ospedale è vittima di questo tipo di errori. La maggior parte di questi casi origina dall'errore umano. I fattori che aumentano la probabilità di errore terapeutico sono inerenti ai complessi meccanismi coinvolti nella prescrizione e nella somministrazione del farmaco. Il trattamento farmacologico fallirà se sono sbagliate le decisioni strategiche o se le condizioni in cui il farmaco viene impiegato favoriscono l'errore. Purtroppo gran parte di ciò che si sa sugli errori terapeutici proviene da segnalazioni aneddotiche; occorrono maggiori informazioni sulle cause più frequenti di tali errori.
Infine, va considerato un problema spesso trascurato: l'importanza che il singolo paziente può attribuire ai potenziali benefici o ai potenziali danni di un trattamento può differire da quella attribuitagli dal medico o da altri pazienti. Pazienti diversi possono valutare in modo diverso benefici e danni: ciò che per una persona può essere un beneficio assolutamente inadeguato può essere giudicato da un'altra come un buon miglioramento e un effetto che per qualcuno può sembrare catastrofico per altri può essere semplicemente un inconveniente di scarsa importanza. La valutazione definitiva del rapporto beneficio/danno è pertanto anche soggettiva.
I pazienti potranno formulare meglio una loro personale valutazione di questo rapporto se verranno messi a conoscenza delle quattro caratteristiche fondamentali del rischio di quel particolare farmaco, ossia la tipologia, la durata (es. un effetto temporaneo come un'infezione dopo un intervento chirurgico o permanente come l'incontinenza dopo una prostatectomia), il momento in cui si manifesta (es. immediatamente o dopo un certo periodo) e la probabilità di insorgenza. Generalmente il rischio di un danno viene percepito in modo più tangibile dal paziente se si tratta di un danno grave, con maggiori probabilità di manifestarsi nel breve periodo. Se il medico non riconosce e discute col paziente le preferenze per un determinato trattamento, può prendere decisioni di cui entrambi potrebbero in seguito essere poco soddisfatti. La percezione del paziente del rapporto fra danno e beneficio di un trattamento, tuttavia, rimane un fenomeno complicato su cui influiscono pesantemente valori personali e pregiudizi che si frappongono al tentativo di assicurargli una "corretta interpretazione" delle informazioni disponibili.
D'altro canto i medici, deliberatamente o inconsciamente, espongono al paziente i benefici (e i danni) di un trattamento ricorrendo ad una logica di presentazione non neutrale ma che mira a pilotare la scelta del paziente.
Nonostante tutte queste difficoltà, al momento della prescrizione il medico deve basarsi sul suo giudizio per ciò che riguarda i benefici e i danni che il farmaco ha dimostrato di produrre. E' importante perciò chiedersi:
se l'informazione disponibile sui possibili benefici e sul rischio di produrre un danno rispetto ad altri interventi o rispetto al non trattamento è adeguata;
se il medico è in grado di valutare correttamente i dati disponibili sia sui possibili benefici che sui possibili danni.
In altri termini, quali sono i problemi principali nel reperire e interpretare i dati disponibili sui benefici e i danni di un trattamento?
Queste stesse domande valgono sia per l'industria che per le autorità regolatorie che devono decidere se un farmaco può essere impiegato o meno e a quali condizioni può essere prescritto.
I MESSAGGI CHIAVE
il rapporto beneficio/danno di un trattamento può essere definito solo qualitativamente;
il rapporto beneficio/danno di un trattamento non è una caratteristica predefinita (costitutiva) di un trattamento ma può variare per lo stesso trattamento secondo vari fattori (tipo di malattia, alternative disponibili, caratteristiche e punti di vista del paziente);
solitamente occorre tempo per acquisire tutte le informazioni necessarie a definire sia il beneficio che il danno di un trattamento;
la definizione del rapporto beneficio/danno di un trattamento è un processo permanente che richiede la collaborazione fattiva di tutti i soggetti interessati.
I principali problemi nella valutazione dei benefici di una prescrizione
In questo contesto devono essere considerati due problemi principali: il primo è la disponibilità di prove solide, non viziate da errori metodologici, che dimostrino l'efficacia dell'intervento e il secondo è la capacità del medico di interpretare correttamente l'informazione disponibile.
1. Esistono prove solide a dimostrazione del beneficio di un trattamento?
Esiste un consenso sempre più ampio sul fatto che la valutazione più attendibile del reale effetto di un intervento provenga dai risultati di studi clinici ben condotti e di adeguate dimensioni ed è su questi dati che i medici dovrebbero basare le loro decisioni. Ancora oggi, tuttavia, molti studi non si avvalgono di un disegno sperimentale adeguato e arruolano un numero troppo limitato di pazienti, compromettendo in questo modo la loro validità intrinseca. Queste lacune possono avere gravi conseguenze sulla valutazione dei benefici di un trattamento. Si stima infatti che gli studi clinici randomizzati di scarsa qualità amplifichino l'efficacia di un intervento fino al 50% rispetto a studi più ampi e di elevata qualità3,4. Inoltre, se la qualità e la quantità dell'informazione prodotta dalla ricerca clinica risultano di fondamentale importanza per scegliere il trattamento più appropriato, questo comunque non è sufficiente. Il medico deve anche essere in grado di interpretare correttamente l'informazione disponibile. In particolare deve essere ben conscio di due importanti fattori confondenti: primo, il modo in cui gli effetti del trattamento vengono presentati; secondo, l'utilizzo di misure di esito surrogate per misurare il beneficio del trattamento.
2. L'informazione disponibile viene interpretata e recepita correttamente? a) Le modalità di presentazione dell'informazione
L'effetto di un trattamento viene comunemente riportato facendo riferimento alla riduzione del rischio relativo. E' stato dimostrato che questo metodo, sebbene tecnicamente corretto, agisce in modo subliminare, amplificando l'effetto dell'intervento e influenzando così il giudizio del medico5. Esprimere il risultato come riduzione del rischio relativo di un evento ha infatti lo svantaggio che uno stesso valore numerico può sottendere significati clinici molto diversi. Un esempio di tale possibilità è illustrato nel box. Il problema è importante soprattutto se la frequenza degli eventi è bassa, come spesso accade negli studi di prevenzione primaria. Riportando il rischio relativo, che si focalizza sulla piccola percentuale di persone in cui si è manifestato l'evento patologico, si trascura il grande denominatore dei soggetti arruolati nello studio e che non hanno ricavato alcun beneficio dall'intervento. I risultati andrebbero perciò presentati utilizzando altri metodi come la riduzione del rischio assoluto e il numero di pazienti che devono essere trattati per prevenire un evento; questi parametri infatti definiscono l'efficacia di un trattamento tenendo conto sia dell'entità della riduzione del rischio che del rischio di base senza trattamento. Solo così il medico sarà in grado di valutare con precisione la probabilità di beneficio che il suo paziente potrà ottenere da un nuovo trattamento (vedi esempio dall'Helsinki Heart Study).
b) Il problema degli end point surrogati
Idealmente, il medico che deve decidere su un determinato trattamento dovrebbe fare riferimento a studi clinici adeguati, metodologicamente corretti, impostati per evidenziare l'impatto della terapia su esiti clinicamente importanti. Sono considerati esiti clinicamente importanti quelli che sono importanti per i pazienti (ad esempio la morte, gli eventi gravi, la qualità di vita in relazione alla salute, ecc.). Tuttavia molto spesso, soprattutto nell'ambito della prevenzione, le dimensioni del campione di popolazione necessario per studi di questo tipo sono così ampie e/o il follow-up è a così a lungo termine che si cercano end point terapeutici alternativi. Sostituire gli esiti clinicamente importanti con end point surrogati consente all'industria farmaceutica di condurre studi più piccoli e di minore durata, risolvendo apparentemente il problema.
Tuttavia gli end point surrogati sono affidabili solo se esiste una connessione causale fra la modificazione del "parametro surrogato" e la modificazione dell'evento clinicamente importante. Il parametro surrogato pertanto non solo deve essere coinvolto nella patogenesi della malattia ma l'effetto complessivo dell'intervento sull'esito clinico deve riflettere appieno la modificazione nel parametro surrogato.
Purtroppo spesso non è così. Se l'uso di criteri di valutazione surrogati può essere accettato per gli studi di fase 2 o per gli studi iniziali di fase 3, cioè per gli studi preliminari volti a valutare il possibile beneficio di un farmaco, è invece molto più discutibile il fatto che alcuni farmaci ottengano l'autorizzazione all'immissione in commercio sulla base di una efficacia misurata solo su end point surrogati (l'oncologia è piena di questi esempi). Fare affidamento su criteri di valutazione surrogati può essere vantaggioso o pericoloso.
Come possono valutare i medici il rapporto beneficio/danno in questa situazione? Per aiutarli a decidere sull'adeguatezza di un esito surrogato, nella tabella 1 sono riportati alcuni criteri. Al di fuori di queste situazioni, prima di adottare un trattamento solo sulla base di risultati ottenuti su end point surrogati, occorre considerare attentamente gli effetti indesiderati noti di una terapia e la possibile comparsa di effetti indesiderati non previsti.
I medici perciò devono valutare in modo critico gli interventi terapeutici che si sono dimostrati efficaci in base a dati ricavati solo su end point surrogati; l'unica soluzione al problema degli esiti surrogati sono gli studi clinici controllati che valutano l'effetto di un intervento su esiti clinici importanti.
I principali problemi nella valutazione dei possibili danni di un trattamento
L'utilizzo di qualsiasi farmaco può portare conseguenze inattese. In base ad una valutazione retrospettiva condotta nello stato di New York, l'Harvard Medical Practices Study, il 3-7% dei pazienti ha avuto gravi effetti indesiderati da farmaci nel corso di una degenza ospedaliera. Una recente metanalisi ha valutato che negli Stati Uniti il 6-7% di tutti i pazienti ospedalizzati manifesta gravi reazioni avverse da farmaci e più di 100.000 americani muoiono ogni anno per effetti indesiderati da farmaci. La valutazione del rischio che un determinato intervento possa arrecare un danno al paziente è quindi molto importante, ma valutare questo rischio è ancora più difficile che valutare la probabilità di ottenere un beneficio. E questo per almeno 4 ragioni.
1. La sicurezza non è un concetto assoluto
Nella scelta dei farmaci e nel loro impiego è fondamentale considerare la natura e la frequenza degli effetti indesiderati. Ma questo non è sufficiente a definire quale possa essere considerato "un effetto indesiderato tollerabile". Il tipo di farmaco, la gravità della malattia sottostante, le caratteristiche del paziente e la disponibilità di trattamenti alternativi sono fattori che possono avere un forte impatto nella valutazione della tossicità relativa di un trattamento e, di conseguenza, del suo impatto sulla definizione del rapporto beneficio/danno che deve guidare il medico nella scelta del trattamento più appropriato.
2. I danni sono più difficili da scoprire dei benefici
Contrariamente allo sviluppo raggiunto nella realizzazione degli studi clinici sui potenziali benefici terapeutici, la raccolta sistematica, la ricerca, l'analisi e l'interpretazione dei dati sugli effetti indesiderati sono progredite lentamente.
La descrizione del processo attraverso cui gli effetti indesiderati vengono alla luce, sono studiati e analizzati va al di là degli scopi di questo articolo. Ricordiamo solamente che la principale difficoltà che si incontra nel processo di farmacovigilanza è distinguere fra eventi avversi che sono correlati al trattamento e quelli che non lo sono. Gli studi clinici controllati, per le caratteristiche proprie della loro impostazione, riescono molto meglio a valutare i benefici rispetto ai danni; gli effetti indesiderati si manifestano per lo più in modo inaspettato e vengono rilevati solo incidentalmente e in modo non sistematico.
La possibilità che una reazione avversa di un farmaco venga individuata come tale dipende sia dalla frequenza con cui si manifesta (ad esempio se si tratta di un evento raro o relativamente comune), sia nella popolazione esposta che in quella non esposta, sia dal momento in cui si manifesta rispetto all'assunzione del farmaco (ad esempio se si manifesta immediatamente dopo l'assunzione di un farmaco o dopo un uso prolungato o molto tempo dopo che il farmaco è stato sospeso).
Purtroppo tutti i metodi attualmente adottati (vedi tabella 2) per identificare effetti indesiderati in precedenza sconosciuti o per confermare reazioni avverse note hanno dei limiti e sono verosimilmente influenzati da fattori confondenti ed errori sistematici. Pertanto i loro risultati devono essere interpretati con cautela e competenza specifica e il medico non deve essere lasciato solo in questo compito.
3. L'approccio concettuale al problema della sicurezza di un farmaco differisce da quello dell'efficacia
Nel valutare la probabilità di un beneficio e il rischio di un effetto indesiderato associato ad un trattamento vengono utilizzati due approcci diversi. Nel primo caso, impostando e conducendo studi clinici randomizzati controllati appropriati, si riesce a valutare con sufficiente precisione un beneficio specifico di un intervento.
La valutazione del possibile danno si basa invece sul "principio di cautela" secondo il quale "quando esiste una minaccia per l'ambiente o la salute si devono adottare misure cautelative anche se non si può stabilire con certezza la relazione di causalità". In questo ambito non si può accettare la validità del principio legale "innocente fino a prova contraria" soprattutto se il beneficio atteso dal farmaco può essere ottenuto con altri trattamenti. Attendere fino al momento in cui sia dimostrato il nesso causale potrebbe essere troppo tardi. Per evitare che altre persone soffrano, si deve prevenire o, più realisticamente, minimizzare il rischio di future esposizioni non necessarie dei pazienti all'effetto indesiderato del farmaco, come del resto sancisce il principio della medicina "primum non nocere".
Se questo principio viene applicato acriticamente però, si corre il rischio che la medicina perda farmaci potenzialmente utili senza che vi sia una prova definitiva della loro responsabilità diretta nella comparsa di gravi reazioni avverse. Inoltre, un provvedimento assunto nei confronti di un determinato farmaco in base a prove insufficienti potrebbe diminuire la fiducia in provvedimenti analoghi presi successivamente in base a prove più consistenti (la sindrome dell' "attenti al lupo").
Queste necessità contrastanti fra loro di proteggere il paziente senza condannare ingiustamente un farmaco, sono responsabili della cosiddetta "latenza dell'informazione".
4. La "latenza dell'informazione"
La latenza dell'informazione è il periodo che intercorre fra il momento in cui si ha la prima conoscenza concreta di una grave reazione avversa legata all'impiego di un farmaco ed il momento in cui le autorità regolatorie, per proteggere la salute pubblica, assumono nei confronti di quel farmaco un determinato provvedimento. Quando emerge un problema di sicurezza per un farmaco, il processo che va dalla decisione dell'autorità regolatoria, al provvedimento concreto, alla comunicazione ai medici e al pubblico, è ben lungi dall'essere efficiente. Succede ancora oggi che nessuna informazione venga diffusa nè alcuna decisione venga presa fino a quando i dati disponibili non siano stati vagliati e discussi a lungo dall'autorità responsabile e dal produttore. Solo successivamente l'eventuale decisione viene resa pubblica. A volte il provvedimento può essere attuato senza una informazione ufficiale, ad esempio aggiornando semplicemente la scheda tecnica del prodotto.
Il ritardo causato da questa inefficienza del sistema va a sommarsi al ritardo dovuto alle difficoltà insite nella raccolta di informazioni sulle reazioni avverse sospette e, di conseguenza, un maggior numero di pazienti viene esposto al rischio di subire un danno.
La recente sospensione dal mercato statunitense di 5 farmaci per reazioni avverse inattese (fenfluramina e dexfenfluramina, terfenadina, mibefradil, bromfenac) illustra chiaramente le dimensioni del problema. Più di 20 milioni di pazienti sono stati esposti a questi farmaci prima del loro ritiro dal mercato. La valutazione del rapporto beneficio/danno è quindi un processo irto di difficoltà.
Come si può migliorare la valutazione del rapporto beneficio/danno di un trattamento
Da un'attenta considerazione di tutte le difficoltà che si incontrano nella valutazione del rapporto beneficio/danno di un trattamento, deriva la necessità di una revisione critica dell'intero processo. Per questo scopo è necessaria la collaborazione di tutte le parti interessate ossia i medici che prescrivono i farmaci, l'industria farmaceutica e le autorità di controllo.
1. Il medico deve agire su tre fronti: primo, deve impegnarsi di più nell'individuare gravi reazioni avverse non ancora conosciute attraverso la segnalazione spontanea; secondo, deve resistere alle pressioni del mercato che promuove la prescrizione di farmaci nuovi e potenzialmente più tossici per dare la preferenza a farmaci ben conosciuti e più sicuri. Terzo, deve usare i farmaci correttamente.
2. L'industria farmaceutica deve comportarsi più responsabilmente nel promuovere farmaci nuovi per i quali, per definizione, la tossicità è sconosciuta al momento della commercializzazione e devono rendere pubblici i dati di farmacoutilizzazione e farmacovigilanza.
3. Le autorità di controllo devono guardare più all'interesse del paziente che a quello dell'industria farmaceutica. La registrazione di un nuovo farmaco deve essere basata su solide prove di efficacia. Anche un end point surrogato può essere sufficiente all'inizio per giustificare l'approvazione di un farmaco ma occorre esigere poi ulteriori dati per dimostrare che una determinata terapia produce il beneficio atteso sulla mortalità e morbilità, e per convalidare il suo profilo di sicurezza. La farmacovigilanza postmarketing è un dovere importante delle autorità regolatorie ma occorre un nuovo approccio al monitoraggio della sicurezza di un farmaco. La sorveglianza postmarketing passiva e gli altri metodi tradizionali di identificazione delle reazioni avverse non bastano. Serve un approccio più aggressivo attraverso studi farmacoepidemiologici e studi mirati. Un monitoraggio efficace della sicurezza di un farmaco richiede indipendenza e l'autorità di prendere provvedimenti nei confronti dei farmaci che si dovessero scoprire responsabili di effetti indesiderati. Occorre migliorare il programma di farmacovigilanza esistente, ma per fare ciò sono necessari finanziamenti. Questi fondi possono venire dall'industria, come accade in altri settori, o dallo Stato, attraverso le tasse che i cittadini pagano.
Solo uno sforzo comune fra le autorità sanitarie, l'industria farmaceutica e il medico consentirà una migliorare valutazione del rapporto beneficio/danno dei nuovi trattamenti.
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