Introduzione
Prendendo lo spunto da un recente lavoro pubblicato da una rivista prestigiosa quale il New England Journal of Medicine1 ci siamo proposti di analizzare in maniera critica la struttura di alcuni degli studi recentemente pubblicati per dimostrare risultati favorevoli di nuovi farmaci o di nuove combinazioni di farmaci in situazioni neoplastiche avanzate, caratterizzate in queste fasi da sopravvivenze in genere estremamente ridotte. La riflessione riguarda quindi, a partire da un singolo studio portato come esempio, la strutturazione ed il metodo con il quale vengono disegnati ed analizzati diversi di questi studi, cercando di entrare poi con alcune considerazioni nel merito della loro applicabilità e traslazione nel mondo reale.
Lo studio
Sul numero del 31 Ottobre scorso (2013) Von Hoff e coll.1 hanno pubblicato uno studio (MPACT, Metastatic Pancreatic Adenocarcinoma Clinical Trial) dal titolo “Increased Survival in Pancreatic Cancer with nab-Paclitaxel plus Gemcitabine” che è stato ampiamente ripreso anche dalla stampa non specializzata ed enfatizzato come espressione di un grande progresso nel trattamento di una neoplasia, quale l’adenocarcinoma pancreatico, non trattabile chirurgicamente in oltre l'80% dei casi e la cui prognosi è solitamente segnata da un’aspettativa di vita che si misura in pochi mesi. In effetti anche gli autori, nell’abstract del loro lavoro, affermavano testualmente “il trattamento con nab-paclitaxel più gemcitabina migliora in maniera significativa la sopravvivenza, l’intervallo libero da malattia e la risposta obiettiva dei pazienti con tumore pancreatico avanzato” aggiungendo anche però “ma la frequenza di neuropatia e mielosoppressione è aumentata”. Leggendo tuttavia attentamente il lavoro si osserva come in realtà il dato che doveva essere maggiormente significativo e cioè l’aumento della sopravvivenza è costituito da un incremento pari a 1,8 mesi (si passa cioè da una sopravvivenza globale del gruppo gemcitabina di 6,7 mesi a quella di 8,5 mesi del gruppo trattato con la nuova associazione).
È uno studio numeroso in quanto la randomizzazione al trattamento aveva arruolato 831 pazienti. Una popolazione, come molto spesso accade negli studi, soltanto parzialmente rappresentativa del mondo reale. Si trattava infatti di un gruppo di soggetti con età media di 62 anni, con un performance status misurato secondo l’indice di Karnofsky superiore all’80% nel 93% dei pazienti. Inoltre una percentuale di pazienti piuttosto elevata non era riuscita, in entrambi i bracci di trattamento, a completarlo o a mantenere le dosi piene. Infatti la durata media del trattamento nel gruppo combinato era pari a 3,9 mesi vs. 2,8 mesi nel gruppo gemcitabina. Inoltre l’analisi degli effetti collaterali dimostrava come nel gruppo combinato di trattamento la percentuale di effetti collaterali di grado = 0 > a 3 era decisamente più elevata (38% vs. 28% neutropenia, 31% vs. 16% leucopenia, 17% vs. 7% fatica, 17% vs. 1% neutropenia). Infine la percentuale globale di fatica riportata nel gruppo di trattamento combinato era 54%, di alopecia 50% e di nausea e vomito 49%.
Disegno dello studio ed evoluzione dei trattamenti per la neoplasia pancreatica avanzata
Nella introduzione del lavoro si accenna per sommi capi a quella che potrebbe essere definita la storia dei trattamenti per questo tipo di neoplasia. Dopo avere definito come dal 1997 la gemcitabina debba essere considerata il trattamento storico di riferimento per questa tipologia di tumore, viene fatto solamente un cenno molto fugace a trattamenti combinati a base di gemcitabina e oxaliplatino o irinotecan che avrebbero dimostrato vantaggi sulla sopravvivenza globale fino a 4,3 mesi2,3. Un incremento della sopravvivenza globale ben superiore a quell’1,8 mesi osservato con la combinazione nab-paclitaxel/gemcitabina. Ed in effetti in una recente messa a punto sull’argomento di Muniraj e coll.4 il trattamento combinato con gemcitabina ed irinotecan od oxaliplatino viene considerato come il gold standard del trattamento attuale per l’adenocarcinoma pancreatico, anche se gravato da una percentuale di effetti collaterali piuttosto pesante. L’età media dei pazienti arruolati era pure piuttosto bassa e pari a 61 anni. Nello stesso articolo viene citato anche il nab-paclitaxel come farmaco promettente in associazione con la gemcitabina dopo che i dati dello studio MPACT erano stati presentati come abstract all’ASCO nel giugno 2013. Ambedue questi lavori poi, come viene sottolineato sempre nella messa a punto di Muniraj4, non potevano essere considerati pienamente rappresentativi dell’universo delle neoplasie pancreatiche, in quanto la percentuale di tumori localizzati alla testa del pancreas era decisamente inferiore al 50%. Tutti gli studi dal 1997 in poi prendono come farmaco di riferimento la gemcitabina in quanto, perlomeno dal punto di vista statistico, questo farmaco nello studio di Burris e coll.5 aveva dimostrato una superiorità rispetto ai trattamenti fino ad allora praticati ed in particolare nei confronti del fluorouracile (5-FU). In questo piccolo studio condotto su 126 pazienti nel gruppo trattato con gemcitabina si era osservata una sopravvivenza media di 5,65 mesi vs. 4,41 mesi nel gruppo 5-FU, con un lieve apparente miglioramento anche nel controllo del dolore. Fino al 1997 i vari trattamenti proposti a base di 5-FU non avevano dimostrato né una reale efficacia né una buona tollerabilità6. È abbastanza sorprendente, ma dato comune a quasi tutta la letteratura relativa ai trattamenti dei tumori in fase avanzata, come, nonostante siano passati più di 15 anni dal lavoro di Burris5, in tutti gli studi la sopravvivenza globale, con qualsiasi trattamento proposto, non abbia mai superato una mediana di 12 mesi4,7. Questo modestissimo miglioramento ottenuto nei diversi studi in un lasso di tempo così ampio non considera i mezzi diagnostici e l’attenzione ad una diagnosi precoce, che in questo arco temporale hanno compiuto notevoli passi in avanti. Al punto che sarebbe anche lecito pensare che un certo guadagno nella sopravvivenza, più che alla reale efficacia di trattamenti molto pesanti anche dal punto di vista degli effetti collaterali, possa essere in realtà più collegato ad una maggiore precocità della diagnosi, specie nelle localizzazioni a corpo e coda, o ad altri interventi di palliazione poco praticati negli anni ‘90, come ad esempio gli impianti di stent a livello della via biliare per le localizzazioni della testa8. Una prima domanda quindi riguarda il disegno dello studio MPACT. È evidente come questo studio sia stato disegnato non tanto per dimostrare la superiorità o quantomeno la pari efficacia della combinazione nab-paclitaxel + gemcitabina rispetto al trattamento considerato fino al momento dello studio il gold standard in questa patologia (gemcitabina più irinotecan od oxaliplatino)3, quanto piuttosto per cercare di ottenere comunque un risultato positivo, favorito dalla maggior debolezza del trattamento scelto per il braccio di controllo. Con la ovvia finalità di favorire una possibile approvazione per l’immissione in commercio da parte degli organismi regolatori. Sia lo studio MPACT che lo studio PRODIGE sono poi gravati da una serie di limiti che, se considerati, li potrebbero rendere obiettivamente poco applicabili al mondo reale. In primo luogo l’età media, in secondo luogo la percentuale molto bassa di localizzazioni alla testa, in terzo luogo una selezione di pazienti con performance status molto poco compromesso, in quarto luogo l’assenza della considerazione di eventuali comorbilità, infine il basso numero di pazienti in grado di completare il trattamento in termini di numero di somministrazioni e mantenimento delle dosi “efficaci”. E tra l’altro l’unico studio pubblicato9 di valutazione di outcome in una coorte di pazienti seguiti al di fuori di trial clinici, sia pure piccolo (92 pazienti) e retrospettivo, riporta un dato di sopravvivenza mediana pari ad 11 mesi, con una prognosi migliore per i pazienti con localizzazioni alla testa e fumatori, a testimonianza di come probabilmente ancora una volta la chemioterapia, qualsiasi sia lo schema di trattamento impiegato non ottiene grandi risultati in questo setting di pazienti. In questo studio, inoltre, solo il 66% dei pazienti aveva ricevuto trattamenti “attivi“, in più del 90% a base di gemcitabina, in una certa quota associata a radioterapia. Ma nessuno era stato trattato in associazione con irinotecan od oxaliplatino.
Considerazioni critiche
Al di là di un disegno dello studio costruito in maniera pro commerciale piuttosto che scientifica (d’altra parte leggendo il conflitto di interessi degli autori in fondo all’articolo se ne comprende bene la ragione), risulta difficile concordare con le conclusioni riportate quando si parla di un significativo miglioramento della sopravvivenza. A nostro giudizio un miglioramento della sopravvivenza di 7 settimane associato ad una tossicità rilevante potrebbe essere definito come “deludente”. Recentemente Weeks e coll.10 in una numerosa coorte di pazienti affetti da neoplasia avanzata del colon-retto hanno dimostrato come la stragrande maggioranza di questi pazienti non era stata correttamente informata sulla reale efficacia dei trattamenti che venivano proposti e che, se correttamente informati del “risibile” guadagno di sopravvivenza, a fronte di rilevanti effetti collaterali, in una percentuale elevata avrebbero rifiutato il trattamento stesso. Risultati così modesti, quali quelli ottenuti anche negli altri studi, con i limiti cui abbiamo in precedenza accennato, dovrebbero imporre alla comunità scientifica un’attenta riflessione. In primo luogo sarebbe doveroso procedere ad una survey del mondo reale. Istituire cioè dei registri di patologia che raccogliendo in maniera analitica tutti i casi di tumore pancreatico avanzato possano fotografare quella che realmente è una attendibile sopravvivenza dal momento della diagnosi indipendentemente dai trattamenti ricevuti. Occorrerebbe poi considerare in che maniera interventi palliativi atti a ripristinare la pervietà della via biliare, in particolare nelle neoplasie interessanti la testa pancreatica, possano in qualche modo condizionare favorevolmente (ovviamente in termini di “overall survival” e qualità della vita) la prognosi di questi soggetti11. Un’attenzione particolare all’età, alla presenza o meno di comorbilità12, in pratica una valutazione multidimensionale, potrebbe ragionevolmente evitare a priori trattamenti eccessivamente pesanti per i soggetti più anziani e/o più fragili13,14. Contestualmente l’utilizzo di valutazioni più precise riguardanti la qualità della vita e non soltanto considerazioni in merito al performance status tramite le scale molto grossolane attualmente utilizzate (Karnofsky, ECOG), potrebbe produrre ulteriori significativi dati aggiuntivi in merito alla decisione o meno di trattare o di proseguire un determinato trattamento12. Infine andrebbe valutato in maniera critica quanto una corretta comunicazione al paziente ed ai suoi familiari sulla reale efficacia del trattamento “attivo”, potrebbe favorire una consapevole rinuncia allo stesso a favore di una più attenta e mirata palliazione dei sintomi, per i quali oggi disponiamo di un ventaglio di opzioni e possibilità ben più ampio di quanto presente all’epoca dello studio di Burris5.
Le principali contraddizioni presenti nella letteratura medica di intervento e nella pratica quotidiana in ambito oncologico
Lo studio che abbiamo considerato ci ha consentito di evidenziare alcuni dei limiti e dei bias presenti nella letteratura di ambito oncologico riguardante i trattamenti “attivi”. Tuttavia riteniamo che molti altri sarebbero i punti oggetto di critica in questo ambito di letteratura medica. Vi sono infatti diversi aspetti ed alcuni punti storicamente considerati come “postulati” che probabilmente potrebbero essere revisionati se si promuovessero studi con disegni diversi e meno condizionati dalle esigenze degli sponsor. Abbiamo già accennato alla mancanza di dati “attuali” sulla storia naturale di diverse neoplasie diagnosticate in stadio avanzato e con aspettativa di vita, dal momento della diagnosi, inferiore all’anno. Altro punto considerato come postulato, ma mai pienamente dimostrato, è quello riguardante la terapia adiuvante. Si parte infatti da un presupposto che tuttavia non trova una inequivocabile dimostrazione in letteratura medica che la prognosi di un paziente con neoplasia sottoposta ad intervento chirurgico sia più favorevole applicando una terapia adiuvante nei mesi successivi all’intervento chirurgico, piuttosto che applicare un trattamento “attivo” al momento di una eventuale recidiva. Un trattamento adiuvante potenzialmente ben tollerato in soggetti giovani e motivati, dopo un’adeguata informazione, potrebbe effettivamente in alcune neoplasie in particolare (vedi mammella15) evitare o ritardare una recidiva di malattia e pertanto potrebbe avere un significato reale. Ma in altre situazioni, nelle quali il trattamento è particolarmente pesante e gravato da effetti collaterali, a fronte di risultati tutto sommato “modesti” (stomaco, polmone, etc.16,17), specie in soggetti di età diverse da quelle dei trials, più anziani, più fragili, più gravati da comorbilità, credo potrebbe essere importante comparare il trattamento adiuvante ad eventuali trattamenti effettuati al momento della possibile recidiva, se praticabili (sempre in relazione alla situazione generale di ogni singolo paziente). Raramente poi ai pazienti da sottoporre a terapia adiuvante viene fornita l’informazione che, in una percentuale elevata di casi, il trattamento può essere inutile, in quanto la recidiva comunque non avverrebbe. In molti tumori infatti (vedi colon-retto) di 100 pazienti sottoposti a terapia adiuvante una percentuale pari almeno al 70-75% non recidiverebbe comunque anche senza trattamento. Ed è evidente come studi di questo tipo farebbero molta fatica trovare finanziamenti per la loro attuazione. Questo concetto e cioè che una diagnosi più precoce o il ritardare la recidiva sia sempre impattante sulla prognosi quoad vitam di un paziente neoplastico, porta poi ad atteggiamenti e comportamenti nella pratica oncologica che probabilmente, se generalizzati, rischiano di essere non solo non utili, ma anche negativi per diversi pazienti. Mi riferisco essenzialmente alla pratica del follow-up che consiste nel sottoporre pazienti con tumori già sottoposti a trattamenti chirurgici o chemio-radioterapici a controlli seriati, spesso molto ravvicinati, volti a cogliere precocemente i segni di un’eventuale recidiva di malattia. Se questo può essere utile ed efficace in alcune situazioni nelle quali ad esempio un intervento chirurgico potrebbe ottenere una nuova radicalizzazione nella estirpazione del tumore, in molte altre situazioni invece, soprattutto nei pazienti più anziani, questa pratica può divenire penalizzante, specie in termini di qualità della vita. Si tratta infatti di pazienti anziani, fragili, per i quali è stato dimostrato come anche l’accesso in ospedale possa divenire uno stress18 e come questi controlli rigorosi possono perpetuare la percezione di malattia. Inoltre i trattamenti per le recidive di molti di questi tumori in soggetti anziani/fragili sono gravati da importanti tossicità a fronte di benefici veramente molto modesti, se non nulli. Tutto questo senza considerare anche la ricaduta economica che questi controlli e questi trattamenti hanno sul budget delle nostre strutture sanitarie19.
Considerazioni conclusive
Lo studio che abbiamo cercato di analizzare in maniera critica ci ha consentito di mettere in evidenza come in campo oncologico, specie in certi ambiti e nella fattispecie in alcuni setting di tumori in stadio avanzato, e con prognosi solitamente infauste in tempi relativamente brevi, la letteratura prodotta negli ultimi anni presenta limiti importanti. Si tratta innanzitutto di limiti di tipo metodologico in quanto spesso i confronti, come nel lavoro che abbiamo considerato, arruolano nel braccio “di confronto” linee di terapia più deboli rispetto al gold standard di trattamento per quella determinata patologia e presentano quindi un’iniziale bias, essendo palesemente disegnati per fini più commerciali che clinici. Pur essendo spacciati per grandi progressi, in realtà dimostrano miglioramenti “abbastanza marginali” che, se oggetto di adeguata informazione ai pazienti, a fronte di effetti collaterali importanti, probabilmente molti non accetterebbero. La selezione per l’arruolamento inoltre è tale da rendere la loro trasferibilità applicabile soltanto ad una minoranza dei pazienti reali. La mancanza di registri di patologia capaci di fotografare il mondo reale, fa sì che noi oggi dovremmo ammettere di conoscere poco la storia naturale attuale, nell’epoca della tomografia computerizzata multislice, della risonanza magnetica, della PET, di una sensibilità più diffusa nei confronti dei sintomi più precoci, di molti dei tumori che ci si presentano già all’esordio in fase avanzata. E invece, proprio per cercare di garantire, nella impossibilità di una guarigione, la miglior qualità di vita possibile, dovremmo cercare di comprendere quale potrebbe essere il loro reale decorso anche soltanto supportato da terapie palliative, quali ad esempio, per la testa del pancreas, l’impianto di stent delle vie biliari. Infine una misura più accurata della qualità della vita e della fragilità di ogni singolo paziente (includendovi anche le comorbilità molto frequenti con l’avanzare dell’età) potrebbe effettivamente dimostrare come, nell’epoca di un accesso più facile agli analgesici maggiori e a tecniche più sofisticate di analgesia, quel modesto effetto, tuttora sottolineato, sul dolore del trattamento con gemcitabina, possa essere ridimensionato e, probabilmente, non più necessario.
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Data di Redazione 6/2014